La totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso per cassazione, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata, costituisce un indizio idoneo a configurare, ex art. 2727 c.c., la responsabilità prevista dell’art. 385, comma 4, c.p.c. (nella formulazione applicabile ratione temporis), che prevede la condanna, anche d’ufficio, della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, entro un importo massimo, se si ritenga che il ricorso per cassazione sia stato proposto o allo stesso si sia resistito anche solo con colpa grave.

Così ha deciso la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte con la sentenza n. 3376 depositata il 22 febbraio 2016 (Presidente M. Finocchiaro – Estensore M. Rossetti).

Tra gli altri motivi il ricorrente ha censurato la sentenza d’appello sostenendone l’erroneità per avere privilegiato alcune prove piuttosto che altre.

Ebbene, secondo gli Ermellini tale tipo di censura urta contro il consolidato e pluridecennale orientamento della Corte, in base alla quale non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv.595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv.588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalite a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, che affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessanta anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

Secondo la Corte si è in presenza di un ricorso per Cassazione che, da un lato, non tiene conto di un orientamento consolidato da anni, senza spendere alcun valido argomento per dimostrarne l’erroneità, e dall’altro prospetta un motivo di ricorso non più consentito dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5. Inoltre, trascura l’interpretazione che della nuova norma hanno dato le Sezioni Unite della Corte, con decisione depositata alcuni mesi prima rispetto alla proposizione del ricorso in esame.

La Cassazione ha ritenuto che “proporre ricorsi dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito come costantemente e pacificamente interpretati dalle Sezioni Unite, costituisca di per sé un indice della colpa grave del ricorrente”.

Infatti, agire o resistere in giudizio con colpa grave corrisponde ad azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione, ovvero senza aver usato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione e senza compiere alcuno sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta.

Secondo la Corte di Cassazione tanto è proprio ciò che è avvenuto nel caso de quo, atteso che sarebbe stato facile accorgersi della carenza di fondamento del ricorso in esame.

Da ciò discende secondo gli Ermellini che “delle due l’una: o il ricorrente – e per lui il suo legale, del cui operato ovviamente il ricorrente risponde, nei confronti della controparte processuale, ex art. 2049 c.c. – ben conosceva l’insostenibilità della propria impugnazione, ed allora ha agito sapendo di sostenere una tesi infondata (condotta che, ovviamente, l’ordinamento non può consentire); ovvero non ne era al corrente, ed allora ha tenuto una condotta gravemente colposa, consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall’art. 1176 c.c., comma 2) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell’avvocato in generale, e dell’avvocato cassazionista in particolare”.

Naturalmente, la Corte pur ben conoscendo l’orientamento secondo cui la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. (cfr. Sez. Unite, Ordinanza n. 25831 del 11/12/2007, Rv. 600837), lo ritiene per un verso non applicabile al caso de quo e per altro verso lo considera superato.

Il ragionamento della Cassazione è il seguente: se è vero che proporre un ricorso per cassazione rivelatosi infondato di per sé, non costituisce indice di colpa grave ex art. 385 c.p.c., comma 4, (ovvero, oggi, ex art. 96 c.p.c., u.c.), è altrettanto vero che nel ricorso si è rilevato non già la mera infondatezza, ma la totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nello stesso, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata: di conseguenza la insostenibilità degli argomenti del ricorrente finisce per costituire un indizio dal quale risalire, ex art. 2727 c.c., alla sussistenza di colpa grave, consistita nell’ignorare, senza alcun atteggiamento consapevole o critico, le interpretazioni consolidate delle norme anche processuali.

Il succitato orientamento, in ogni caso , oggi non è più coerente né con la natura e la funzione del giudizio di legittimità, né tantomeno con il quadro ordinamentale.

Secondo gli Ermellini non è coerente con le prime, perché non tiene conto del fatto che il legislatore ha, negli ultimi anni, proceduto ad un progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia assegnato alla Corte di Cassazione, basti pensare, ad esempio, all’art. 360 bis c.p.c., n. 1, che sanziona con la dichiarazione di “inammissibilità”, o meglio di “manifesta infondatezza” il ricorso che censuri un orientamento consolidato, senza offrire elementi per sostenerne il mutamento, all’art. 363 c.p.c., comma 1, che ha ampliato il novero dei casi in cui è consentito alla Corte di pronunciare il principio di diritto nell’interesse della legge, e ancora all’introduzione dell’art. 374 c.p.c., comma 3, che inibisce alle singole sezioni della Corte di Cassazione di porsi in contrasto con gli orientamenti delle Sezioni Unite, senza previamente rimettere la questione a queste ultime.

Dalle modifiche apportate al codice di procedura emerge chiaramente l’intento del legislatore di rafforzare e qualificare la funzione di legittimità e il suo scopo di nomofilachia. Appare evidente che tale intento resterebbe naturalmente frustrato se la Corte non fosse investita solo di ricorsi che meritino e rendano necessario il suo intervento.

Inoltre, l’orientamento de quo, secondo la Corte di Cassazione, non è coerente col mutato quadro ordinamentale, sia perché non tiene conto del principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., che impone interpretazioni delle norme processuali idonee a rendere più celere il giudizio (è evidente che la proposizione di ricorsi privi di qualsiasi ragionevole chance di accoglimento ha l’effetto di impedire la celere decisione di quelli che, fondati od infondati che siano, pongano questioni le quali richiedano un intervento correttivo o nomofilattico del giudice di legittimità), sia in virtù del principio che considera illecito l’abuso del processo, ovvero il ricorso ad esso con finalità strumentali (ex multis, da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 10177 del 18/05/2015, Rv. 635418) ed, infine, in base al principio secondo cui le norme processuali vanno interpretate in modo da evitare lo spreco di energie giurisdizionali (così, da ultimo, Sez. U, Sentenza n. 12310 del 15/06/2015, Rv. 635536, in motivazione).

La conclusione cui giunge la Corte è che, dovendo ritenersi il ricorso oggetto del giudizio in esame proposto quanto meno con colpa grave, e pertanto, non meritevole di accoglimento, il ricorrente deve essere condannato d’ufficio al pagamento in favore della parte intimata, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata in base al valore di queste ultime.

Avv. Maria Teresa De Luca

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui