giustozziQuello delle malattie rare è un mondo sconosciuto, non regolato a livello giuridico e privo di riconoscimenti socio-assistenziali. Responsabile Civile ha raggiunto Claudio Giustozzi, segretario nazionale dell’Associazione Giuseppe Dossetti  che dal 2001 difende i diritti delle persone affette da patologie rare e raccoglie in modo indipendente la voce degli italiani in quanto soggetto apartitico e apolitico.

Come nasce l’Associazione e quali sono le attività portate avanti?

L’associazione Dossetti si forma nel 2001 con l’obiettivo di un reale diritto all’assistenza delle persone con malattie rare. Siamo stati i primi a occuparci di malattie rare. Ricordo che Giuseppe Dossetti è stato uno dei padri costituzionali che ha voluto fortemente l’articolo 32, che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo. Non ci interessava parlare di salute con i grandi numeri ma con quelli piccoli anche perché il 2001 è stato l’anno di svolta, l’anno del titolo V. Nei piccoli numeri abbiamo individuato quelle che erano le difficoltà all’interno di un articolato ancora più grande che è il macrotema della salute. Abbiamo organizzato delle conferenze che hanno permesso una riunificazione di tutte quelle associazioni che trattano anche la stessa patologia rara ma che però non si conoscevano neppure. Nel 2002 abbiamo disposto una maxi-conferenza nella Sala delle Colonne a Roma che ha permesso per la prima volta l’integrazione di tutte queste realtà associative. Abbiamo organizzato un ciclo di conferenze che ci è servito a raccogliere il materiale per presentare all’inizio del 2003 il primo disegno di legge per le malattie rare, peraltro anche il primo approccio legislativo in materia, con la firma di Rosy Bindi, allora ministro della Salute e Francesco Rutelli. Un ddl dotato di una serie di norme atte a gestire la vita quotidiano dei pazienti affetti da malattie rare, in primis il riconoscimento. Condiviso naturalmente con tutte le associazioni che abbiamo conosciuto. Il disegno di legge riportava qualcosa di innovativo che è il comitato nazionale per le malattie rare, in un’epoca di devolution suonava un po’ strano. Secondo noi era necessaria un’entità importante che riguardasse il sistema sanitario nazionale e non quelli regionali. La legislatura però si chiuse con un nulla di fatto. In tutte le successive legislature abbiamo ripresentato il ddl in Camera e Senato, modificato e riattualizzato. In questa legislatura il ddl è presentato in Camera e Senato. Abbiamo modificato una parte riguardante il Comitato Nazionale delle malattie rare trasformandola in un’Agenzia Nazionale delle malattie rare. Attualmente è in fase di studio. Il rischio è che passi anche questa legislatura e non accada nulla. Nel frattempo l’Italia è riuscita ad avere un primo piano delle malattie rare presentato dall’allora ministro Balduzzi nel 2012 ma il Governo cadde subito dopo e dunque non fu attualizzato. Il Ministro Lorenzin ha ripresentato lo stesso piano a ottobre 2014 – identico – dimenticando che il piano era datato 2013-2016 e dunque in ritardo. Un piano nazionale che non era altro che un sunto del ddl presentato nel 2002.


Cosa prevede il disegno di legge nel dettaglio?

Per prima cosa riguarda il riconoscimento delle malattie rare. Si definisce tale una patologia che non supera i 5 casi su 10.000.  In Europa se ne contano 20 milioni e in Italia 2 milioni e il 70% di tutte le malattie rare è di pertinenza pediatrica. L’OMS computa che le patologie rare siano oggi intorno alle 8 mila. In Italia ne sono riconosciute intorno alle 500 e se passano i nuovi LEA abbiamo sanato il 5% delle patologie rare. E lo stesso vale per i tumori; dei 400 riconosciuti nei LEA se ne contemplano una decina. Gli altri vengono curati come i tumori “normali”. Nel frattempo la ricerca genetica continua e l’elenco si allunga. Nel ddl abbiamo aperto una porta per tutte le altre patologie che nel tempo verranno conosciute e riconosciute, per avere un accesso diretto ai livelli essenziali di assistenza. Diversamente dovremmo aspettare che vengano fatti i nuovi LEA. Punto fondamentale riguarda la diagnosi esatta e in tempi rapidi della patologia. Il ddl prevede tutto ciò che riguarda l’informazione e la formazione del personale, l’incremento delle risorse per la ricerca, promuovere l’adeguamento legislativo e il cambio del paradigma economico affinchè sia privilegiata la persona umana. I medici non hanno nessuna preparazione per quanto riguarda le malattie rare, all’università è un esame facoltativo. Possono dunque verificarsi seri problemi quando una persona affetta da malattia rara si presenta in un pronto soccorso. La cartella clinica elettronica nel nostro Paese non funziona, così come la tessera sanitaria che raccoglie i dati di una persona nemmeno svolge la funzione per la quale è nata: agevolare le prestazioni mediche fornendo la storia di ogni paziente. A ogni modo tuttavia il mancato di riconoscimento di molte malattie rare non permetterebbe la segnalazione sulla cartella elettronica e quindi il problema rimarrebbe. Il ddl tratta anche il tema dei farmaci da banco. Molti pazienti utilizzano prodotti che alla lunga hanno un costo notevole e devono però pagare da sé. Spesso si devono aggiungere altre patologie perché vengano riconosciute delle prestazioni (esami diagnostici, farmaci ecc). Questo porta a non sapere quanti sono effettivamente i malati nel nostro Paese.

Il nostro disegno di legge presentato sia alla Camera che al senato ipotizza un’Agenzia nazionale delle malattie rare, in cui si prevede di scorporare la spesa per queste malattie dalla spesa regionale e un coordinamento degli interventi. Abbattere le divisione territoriali e regionali che fanno si che esistano diversi sistemi e modelli di cura e assistenza in tutte le regioni italiane. Entro la fine dell’anno è necessario arrivare a un decreto legge, licenziabile nel primo Consiglio dei Ministri, che garantisca il diritto alla salute e dia risposte ai malati e alle loro famiglie

Qual è l’attuale situazione?

Siamo innanzitutto in ritardo su tutti gli altri paesi. La riforma del titolo V con la regionalizzazione ha portato a molte diseguaglianze. Ci sono malati che non hanno in pratica possibilità di assistenza nella propria Regione e questa situazione potrebbe peggiorare. Come associazione avevamo richiesto nel 2002 un comitato nazionale dotato di portafoglio affinché erogasse soldi alle Regioni in base alle necessità, anche per comprare un farmaco orfano. Avrebbe allocato meglio le risorse. Non è successo. Non sappiamo esattamente quanti siano i malati rari, di quali delle 8 mila patologie indicate dall’Oms soffrano, quale sia la distribuzione geografica. Siamo lontani dal garantire agli individui il diritto alla salute come promesso dall’articolo 32 della Costituzione, lontani dall’investire nella salute considerandola un valore da perseguire invece che un costo o peggio la causa del rosso del bilancio. Il piano nazionale malattie rare è arrivato tardi rispetto al resto d’Europa ed è inapplicabile anche se dovrebbe costruire una rete di competenze, informazioni e solidarietà. Al ministro Lorenzin ho ribadito che i nuovi LEA nelle quali sono state inserite 110 patologie rare sono ancora sulla carta e per garantirne l’applicabilità è necessaria una copertura finanziaria che oggi varia dal Regione a Regione.

Lo scorso 24 novembre si è svolto un incontro a cui hanno partecipato sia il fronte del no che quello del sì per il referendum costituzionale. Erano presenti Giulia Grillo per il Movimento 5 Stelle e il sottosegretario Vito de Filippo per il PD. Abbiamo chiesto un superministero che assicuri una governance equilibrata, omogenea e coerente nella sanità di tutte le regioni uscendo così dall’attuale macchia di leopardo a prescindere dall’esito referendario. È stato l’unico incontro positivo durante la campagna referendaria. È emerso in modo chiaro che i cittadini non sapevano nulla di ciò che ci c’era nel referendum. Abbiamo commissionato a nostre spese un sondaggio Doxa – 10 domande – che ha rivelato che il 96% degli intervistati era del tutto ignaro delle ricadute del referendum sulla propria salute. Solo il 12% sapeva davvero di cosa parla il titolo V e solo il 4% degli intervistati conosceva nel merito il contenuto dell’articolo 117 del titolo V. Indipendentemente dal risultato la vera partita si gioca tra il Ministero dell’Economia e le Regioni. I soldi ce l’ha il Ministero dell’Economia che li eroga alle Regioni. Il ministero della Salute non ha soldi da disporre e quindi dipende in tutto e per tutto dal ministero dell’Economia. Con la nostra richiesta il Ministero della Salute potrebbe metterci i fondi. L’esito referendario non ha nessuna incidenza su questo. Attualmente le regioni hanno l’organizzazione in mano, il Ministero della Salute non conta niente. La verità è che non c’è interesse a investire nella salute. Così come è la situazione attuale alle regioni conviene che le persone si spostino per curarsi. C’è un’Italia a tantissime velocità. Non si parla di sanità perché c’è una tendenza ad appaltare al privato e perché parlare di sanità significa mettere in difficoltà alcuni governatori. Non si trattava solo votare si o no ma aprire un dibattito sulla sanità, tema di cui, come dimostrato, nessuno sapeva nulla.

Laura Fedel

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui