Questo articolo nasce dalla lettura della sentenza che si allega e che consiglio di leggere in quanto ad essa si farà riferimento per evidenziare come delle “presunzioni” o delle “inesattezze” scientifiche possano inficiare una sentenza e quindi la “Giustizia” che ogni cittadino si attende adendo le vie legali.

Gli step essenziali per lamentare un vizio di consenso e il risarcimento di tutti i danni conseguenza sono i seguenti:
1) Verificare la completezza della domanda attorea nel differenziare le due richieste di lesione del diritto all’autodeterminazione in sé e risarcimento tra disinformazione e danno alla salute verificatori;
2) Verificare l’avvenuta informazione;
3) Verificare il nesso di causa tra l’eventuale lesione del diritto di autodeterminazione e il danno alla salute.

Partiamo proprio dalla sentenza che si allega e, nella convinzione che tutti i lettori la scaricheranno e la leggeranno, valutiamo le sole conclusioni del Giudice.

Il Giudice afferma che “Dirimenti risultano le dichiarazioni del marito della sig.ra in sede di interrogatorio formale. Egli così testualmente si è espresso: “quando ho avuto il colloquio con il dr. xxx per il consenso era presente il consenso che era a letto, ho firmato io perché mia moglie non poteva muovere le mani. Mia moglie aveva le braccia steccate. Ho firmato un foglio prestampato che conteneva delle informazioni che tuttavia non ho letto perché il foglio lo teneva il medico. Il contenuto dell’atto non mi è stato spiegato, il dr. … mi disse che si trattava di una formalità. All’interno della stanza non c’era nessuno all’infuori di me, di mia moglie e del dr. xxx”. Orbene, le suddette dichiarazioni appaiono confessorie della circostanza che il consenso sia stato effettivamente dato dalla paziente, presente al momento ma impossibilitata a firmare…”

Questo è il primo vulnus della sentenza, ossia la paziente non è stata informata adeguatamente tanto da potersi autodeterminare, al contrario di quanto afferma il giudice il quale, ove richiesto da parte attrice, avrebbe dovuto risarcire il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione e non respingere in toto la domanda. Infatti quanto dichiarato dal marito tutto lascia dedurre tranne che una informazione a riguardo, se non quella verosimile relativa alla patologia di cui era affetta (fratture dei due arti superiori) e dall’intervento che il medico avrebbe voluto fare.

Questo è ciò che “presuntivamente” si può dedurre da tale confessione, che non significa adeguata informazione ma, al contrario, mancata coscienza di tutto ciò che è legato alle possibili terapie per la guarigione, delle complicanze legate ad essa, del rapporto rischio/beneficio soprattutto a riguardo dell’ottimizzazione dei risultati ottenibili con i vari tipi di interventi possibili e le attese della paziente in base alle sue attività/esigenze quotidiane anche lavorative (seppur fosse una casalinga).

Quindi esiste in sé un diritto risarcibile indipendentemente dai risultati ottenuti.

Passiamo adesso al secondo step, ossia alla dimostrazione del controfatto il cui onere si ritiene a carico del richiedente il risarcimento (dell’attrice nel caso de quo).

Sicuramente sono illuminanti le sentenze a cui si riferisce il Giudice, ossia quelle del 09.02.2010 n. 2847, del 2012 n. 20984 e del 2010 n. 16394, ma è altrettanto illuminate la sentenza di Cass. Civ. n. 24109/13 che con tale riflessione illumina ogni lettore giurista o medico legale “…La considerazione torna utile perché la peculiarità dell’intervento convenuto in relazione alla sua specifica e particolare funzione, mirante ad impedire ulteriori, temute gravidanze (l’O. aveva già subito due parti cesarei e si accingeva ad affrontarne un terzo), comportava necessariamente che l’obbligo prodromico di informazione, assunto dai sanitari, non si esaurisse nel fornire alla paziente generiche informazioni sull’intervento, che si intendeva eseguire, e sul carattere “irreversibile” della sterilizzazione, ma investisse altresì e soprattutto, in ragione dell’obbiettivo specificamente perseguito dalla paziente, i profili di incertezza che invece gravavano sulla definitività della sterilizzazione. ….. L’adempimento di tale obbligo informativo, da parte dei sanitari, avrebbe non solo evitato la violazione del diritto all’autodeterminazione della paziente, resa consapevole circa la non definitività della sterilizzazione ed informata quindi, in maniera completa ed esaustiva, sul bilancio rischi-vantaggi derivante dall’intervento – non sussistendo alcuna valida autodeterminazione, senza l’informazione cui la paziente aveva diritto – ma le avrebbe altresì consentito di adottare, nel successivo decorso del tempo, le opportune misure nonché gli utili accertamenti e controlli clinici, atti ad impedire ulteriori gravidanze non volute”.

Tali considerazioni la dicono lunga sulla possibilità che le sole “presunzioni” operate dal Giudice di merito possano essere ritenute valide nei gradi di giudizio successivi, proprio perché manca l’adeguata informazione che il solo foglio firmato dal marito posto in mano al medico e non letto possa dimostrare.

Le valutazioni in concreto sul fatto che un paziente possa rifiutare un intervento (o meglio uno specifico intervento) possono essere fatte solamente quando:
1) L’intervento è insostituibile, quindi mandatorio;
2) E’ l’unica possibilità esistente per curare una patologia.

Le conclusioni a cui giunge il giudice sono errate in quanto non tengono conto delle possibili soluzioni terapeutiche e del rapporto rischio/benefici “vestito” sul quel tipo di paziente.

Infatti sono le aspettative post intervento del paziente che giocano un ruolo importante nel determinismo della presunzione che la stessa si sarebbe sottoposta ugualmente all’intervento. Quando non si rileva un documento/atto/registrazione/videoregistrazione che certifichi una informativa completa delle aspettative del medico e quelle del paziente, come si può operare una inversione dell’onere della prova “rigettandola sull’attore?

Nel caso de quo la paziente è morta e non si può neanche ragionare sui postumi effettivamente residuati e sulle complicazioni che potenzialmente avrebbero potuto inficiare il risultato atteso sia dal medico che dal paziente.

Un tratto essenziale della sentenza citata dal Giudice (09.02.2010 n. 2847) recita così “Viene anzitutto in rilievo il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui è dato di compiere. Non sarebbe utile a contrastare tale conclusione il riferimento alla prevalenza del bene “vita” o del bene “salute” rispetto ad altri possibili interessi, giacchè una valutazione comparativa degli interessi assume rilievo nell’ambito del diritto quando soggetti diversi siano titolari di interessi configgenti e sia dunque necessario, in funzione del raggiungimento del fine perseguito, stabilire quale debba prevalere e quale debba rispettivamente recedere o comunque rimanere privo di tutela; un “conflitto” regolabile ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare”.

Tutto quanto finora detto è mirabilmente identificabile con il passo succitato della sentenza chiamata a giustificazione della propria conclusione da parte del Giudice del caso de quo: sentenza che parlava di un caso oculistico ove la complicanza lamentata e prevedibile non era stata rappresentata alla paziente e che comunque era stata risolta da un successivo intervento. In tale caso vale la pena ricordare che l’intervento era necessario ed unica soluzione della patologia della paziente per cui era presupponibile veramente che la paziente si sarebbe sottoposta a quell’intervento.

Per terminare vorrei soffermarmi su altro aspetto fondamentale della sentenza allegata al presente articolo: la paziente è deceduta dopo una decina giorni dopo l’intervento per embolia polmonare massiva e i ricorrenti lamentavano una errata gestione del trattamento antitrombotico.

Il consulente del PM in sede penale aveva dedotto un corretto trattamento, mentre in sede civile il ctu aveva dedotto un possibile inadeguato trattamento antitrombotico anche a motivo della poca chiarezza della cartella clinica.

Anche questo punto è stato eccellentemente risolto dal Giudice che meglio del ctu medico ha saputo decifrare la cartella clinica (comportamento consono alla conclusione relativa al consenso informato).

Il trattamento secondo il Giudice risulta adeguato come potete evincere dalla lettura della sentenza, ma il sottoscritto, non convinto del trattamento effettuato (in base anche al peso del paziente: 110Kg) ha consultato un ematologo-clinico che così ha concluso:
“Essendo la paziente ad altissimo rischio l’indicazione, in questi casi, è di eseguire:
– 12 ore prima 4400 Ui di seleparina, pari ad una fiala da 0,4+ 1/2 fiala da 0.3 (almeno).
– 12 ore dopo l’intervento doveva ripetere tale dose e poi ogni 24 ore allo stesso dosaggio fino al terzo giorno post operatorio.
– Dal quarto giorno, elevandosi il rischio trombotico per la stasi a letto ed essendosi ormai esaurito il rischio emorragico, deve aumentare a 57 U/kg die pari a 6610 UI die per i restanti 7 giorni (pari a una fiala da 0.6 + circa 1/2 fl da 0.3).
Appare che la Seleparina sia stata sottodosata e trovo inusuale non aver eseguito esami ematici (la sepsi è ulteriormente pro-trombogena e si aggiunge ai fattori di rischio già presenti), dove dovevano essere monitorati:
1) DDimeri : la curva avrebbe fatto prevenire la tromboembolia massiava (non sempre ma può essere molto, molto utile)
2) dosare ATIII che la sepsi consuma (per questo è protrombotica), che rappresenta il coenzima dell’eparina naturale e iatrogena)”.

Come potete ben leggere, indipendentemente da quanto afferma il Giudice, esiste nel caso de quo un aspetto non approfondito che può essere stato “efficiente” a provocare il decesso della sig.ra XX.

Spero che questo caso sia stato appellato per i giusti motivi medici e di diritto succitati.

Dr. Carmelo Galipò
(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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