“Rincoglionito, oggi ti faccio del male… sciocco stai zitto, ti metto fuori al freddo… sei duro come il muro, a te oggi niente frutto… levati di torno boia! …Vai a piangere in bagno con te non ci parlo”.

Queste frasi violente sono state rivolte da un’educatrice scolastica ad alcuni bambini di un asilo nido in provincia di Pisa il 4 febbraio 2016. Fare l’elenco di tutti i casi simili in Italia, sarebbe ormai lungo, (per la precisione ci rifaremmo a 65 casi solo negli ultimi 7 anni), ma credo sia doveroso ricordare il caso che in un certo modo ha portato l’attenzione mediatica su questo argomento.

Siamo nel 2009, vengono indagate due maestre dell’asilo nido “Cip e Ciop” che hanno istituito quello che viene definito un piccolo lager: schiaffi in viso a bambini di pochi mesi, ceffoni in testa, piccoli presi per i capelli e costretti ad aprile la bocca per mangiare, bavagli premuti sul viso per costringerli a deglutire. Nel 2015, vengono confermate le due condanne definitive a 6 anni e 4 mesi per una maestra ed a 5 anni per l’altra, con il risarcimento danni alle 25 piccole vittime delle loro condotte.

Per la maggioranza dei casi di maltrattamenti ed abusi in istituzioni scolastiche, non si parla di autori del fatto, bensì di autrici, quindi donne – storicamente ritenute deputate all’accudimento ed all’educazione dei minori – che si rendono colpevoli di maltrattamenti psicologici e fisici di quelli che dovrebbero essere oggetto delle loro cure.

Botte, calci, schiaffi, punizioni esagerate inflitte a bambini anche di pochi mesi sono le principali accuse che emergono nei vari processi, molte insegnanti si giustificano spiegando che la loro condotta era compiuta per far mantenere l’ordine e l’attenzione in classe. Dunque, a monte, vi è una assoluta mancanza di conoscenza dei principi fondamentali della psicologia evolutiva, ma anche una slatentizzazione di tratti violenti.

Mi viene in mente il padre di una giovane mia paziente, che spesso picchiava la figlia in modo brutale. Durante i colloqui preliminari gli chiesi una spiegazione della sua condotta, lui candidamente mi rispose che non ci vedeva nulla di strano: “All’epoca mia, quando sbagliavo mio padre mi legava ad un albero e mi frustava”, gli ricordai che non eravamo più ai suoi tempi e che, ad oggi, stava compiendo un reato.

Questo breve riferimento alla pratica clinica ci ricorda quanto sia importante riferirsi alla cultura di riferimento: illuminante in questo senso è la Corte di Cassazione che sentenzia e chiarisce che “L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di applicazione del principio, la S.C. ha annullato la decisione del giudice di merito qualificando ai sensi dell’art.572 cod. pen., e non come abuso dei mezzi di correzione, la condotta di ripetuto ricorso alla violenza, sia psicologica che fisica, inflitta, per finalità educative, da una maestra di scuola materna ai bambini a lei affidati”. (Sez. 6 n. 5342 5 del 22/10/2014 – dep. 22/12/2014, P.M. In proc. B., Rv. 262336)

Ma come poter definire una condotta di questo tipo in termini psicologici? Il sostantivo clinico che meglio descrive questi tratti è quello di perversione, in cui comportamenti di violenza o di sopraffazione o di svilimento dell’altro vengono adottati senza il suo consenso. I perversi non vengono a galla, non sono di facile intercettazione e raramente si rivolgono con spontaneità ad uno psicologo.

Perché? La loro condotta è “egosintonica” e cioè in perfetto accordo con la loro personalità. I tratti perversi non rappresentano una fonte di sofferenza per chi li esercita, ma sono il loro specifico modo di trattare alcune situazioni relazionali.

Si capisce bene che le misure di cautela invocate a furor di popolo, telecamere e selezione tramite test psicologici, sicuramente possano rappresentare degli interventi utili, ma non sufficienti. Un presidio per l’ascolto psicologico presente in ogni struttura ed usufruibile non solo dagli alunni, ma anche (e soprattutto) dal corpo docente, sarebbe un intervento di forte impatto e cambiamento.

Un insegnante che a dei colloqui risulti “equilibrato” in un determinato momento della vita, non vuol dire che non possa adottare comportamenti violenti in un momento successivo. Lavorare con bambini, soprattutto molto piccoli, può rappresentare un momento di angoscia che può essere affrontato attraverso un passaggio alla violenza che, paradossalmente e nell’immediato può diminuire l’ansia e l’angoscia in chi la esercita.

La presenza di un esperto psicologo all’interno delle strutture scolastiche rappresenterebbe un utile strumento per gli insegnanti per affrontare le proprie ansie e diluire le proprie angosce attraverso l’uso della parola permettendo loro di evitare di agire le condotte violente.

Il contributo odierno rappresenta solo un’introduzione al tema. Nei successivi lunedì ci interrogheremo su altri aspetti della questione anche in base ai quesiti dei nostri lettori, per cui scriveteci per ogni dubbio o sospetto di maltrattamenti verso i vostri figli all’indirizzo di redazione redazione@responsabilecivile.it

Dr.ssa Rosaria Ferrara
(Psicologa Forense)

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