Non possono ricadere nella fattispecie di mobbing i normali conflitti in ambiente di lavoro, tali da restare confinati nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro

Il mobbing va inteso come fonte di responsabilità contrattuale, con conseguente obbligo per il datore di lavoro di provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del dipendente.

La vicenda

Il ricorrente aveva denunciato dinanzi al Tribunale di Ascoli Piceno il proprio datore di lavoro, per presunte condotte vessatorie nei suoi confronti. Un lungo periodo di inattività lavorativa e lo svuotamento progressivo delle sue originarie mansioni specializzate.
Aveva perciò, allegato in giudizio idonea certificazione medica attestante il nesso di causalità tra la sua condizione psico-fisica e la sua attività lavorativa in conseguenza delle mortificazioni indotte da parte datoriale, da cui era derivato un danno biologico.
Riteneva, perciò, di aver provato tutti gli elementi caratterizzanti di norma il mobbing, quale la durata, la reiterazione, la discrezionalità, la pretestuosità e le conseguenze dannose.
Nessuna prova in senso contrario, era stata invece offerta dalla convenuta società, la quale non aveva provato, né chiesto di provare che il proprio reiterato comportamento non era costitutivo di molestia morale e che le proprie decisioni erano state giustificate da ragioni obiettive.
Ma ciononostante l’istanza non è stata accolta, né in primo grado, né in appello.
La corte di merito, in particolare, aveva ritenuto di dover confermare la decisione impugnata, posto che l’attore “in ogni caso” non aveva assolto l’onere probatorio del mobbing e del dimensionamento, all’uopo richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui incombe sul lavoratore, il quale lamenti un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale nocumento, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre spessa al datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le anzidette circostante – l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Bossing o mobbing

Quanto poi, al bossing o mobbing, doveva escludersi una responsabilità per danni di inosservanza degli obblighi di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. in assenza di atti obiettivamente vessatori nel corso del rapporto di lavoro.
A tal proposito, la corte distrettuale, pur non disconoscendo la natura arbitraria o illegittima dell’atto posto in essere dal datore di lavoro nei suoi confronti, aveva affermato che esso era inidoneo a cagionare un danno ingiusto alla salute rientrando nell’ambito del normale svolgimento del rapporto di lavoro:  “non possono infatti, ricadere nella fattispecie di mobbing i normali conflitti in ambiente di lavoro, tali da restare confinati nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro”.
Pertanto alla stregua di quanto accertato, non poteva dirsi in alcun modo integrata una violazione degli obblighi contrattuali del datore di lavoro.
Ciò anche in ragione del fatto che la mera circostanza delle lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro della nocività dell’ambiente di lavoro, nella specie mancata.

Gli elementi caratterizzanti il mobbing

Ebbene la Corte di Cassazione ha inteso confermare tale decisione siccome aderente al prevalente indirizzo giurisprudenziale , secondo il quale per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterarti comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

La redazione giuridica

 
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