Assicurazione e ospedale resistono alla richiesta di risarcimento per la famiglia di Salvatore Romano, morto per una diagnosi sbagliata 20 anni prima

È una vicenda di malasanità e negligenze gravissime quella che ha per protagonista Salvatore Romano, un infermiere dell’Istituto Ortopedico Gaetano Pini di Milano, morto per una diagnosi sbagliata 20 anni prima, a soli 36 anni.
Romano nel novembre del 2013 ha scoperto di essere affetto da un tumore osseo, un osteosarcoma paraosteale che non gli ha lasciato scampo, ma che avrebbe potuto curare se i medici che lo operarono 20 anni prima al braccio avessero effettuato un esame istologico.
L’infermiere morto per una diagnosi sbagliata 20 anni prima, era malato di un tumore osseo che si era propagato a partire dall’omero sinistro: proprio nel punto in cui – ben vent’anni prima e poi nel 2000 – era stato sottoposto a intervento di asportazione, senza però che i medici procedessero all’esame istologico che avrebbe permesso di diagnosticare per tempo l’osteosarcoma paraosteale.
A stabilirlo – e ad accertare le responsabilità della struttura sanitaria – è stata una perizia tombale del tribunale di Milano, che ha accertato come, se solo al momento dell’intervento la diagnosi fosse stata corretta, Salvatore Romano avrebbe avuto l’80% di possibilità di sopravvivere.
Ma c’è di più, perché Romano aveva scoperto che già nel 1996, all’epoca del primo intervento, la valutazione medica fu del tutto sbagliata. Inoltre la struttura sanitaria interessata non è in grado di produrre l’esame istologico. Questo, secondo l’avvocato della famiglia, Ferdinando Bilotti “da un lato comporta di per se stesso la responsabilità secondo la legge, dall’altro lato lascia aperto il serio dubbio che tali reperti non siano stati volutamente prodotti in quanto probabilmente negli stessi si sarebbe potuto leggere con ancora maggior anticipo quanto non si è stati capaci di leggere nel 2000”. L’infermiere scopre poi solo a novembre 2013, all’età di 33 anni, di aver poco tempo da vivere. A quel punto decide non solo di registrare le telefonate con i propri genitori, cosicché possano riascoltare la sua voce quando non ci sarà più, ma inizia a tenere un diario per la figlia che non potrà mai vedere crescere.
Questo del dolore – prosegue il legale della famiglia – è un aspetto giuridicamente estremamente importante perché la sofferenza di un uomo che sa che deve morire, e il Romano questo lo ha saputo dal novembre 2013 all’agosto 2016, e questa condizione che dà luogo al cosiddetto ‘danno terminale’ in modo esemplare”.
Quando l’uomo era ancora in vita la collaborazione e la disponibilità di ospedale e assicurazione (rispettivamente Università campus Biomedico di Roma e Cattolica Assicurazioni) sono state nulle, al punto che la vedova dell’infermiere lamenta di non aver ricevuto nemmeno una telefonata di condoglianze. Il 24 novembre 2015, e cioè sette mesi prima di morire, Romano si sottopone a una visita presso il medico fiduciario della Cattolica senza poi avere riscontro. Nel progredire della malattia – su consiglio dell’avvocato di famiglia – due mesi dopo si sottopone ad accertamento tecnico preventivo presso il Tribunale di Milano.
Ebbene, i quattro periti indicheranno con assoluta certezza in quell’errore sanitario la causa di una morte che si poteva evitare. A quel punto gli stessi periti hanno sollecitato un incontro tra le parti a fini transattivi, ma sia ospedale che assicurazione non lo hanno mai accordato lasciando, ancora oggi, la vicenda aperta, nelle more di giudizio davanti al Tribunale di Roma.
Una circostanza che comporterebbe nuovi oneri per la famiglia, oltre a quelli già sostenuti per cure e spese legali.
 
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