La Corte di Appello di Milano aveva confermato la sentenza di primo grado con la quale era stata condannata una pediatra per il reato di omicidio colposo perpetrato ai danni di un bambino di soli 17 mesi

Nell’assunto accusatorio le si addebitava di aver colposamente cagionato la morte del bambino, avendo prima omesso di visitarlo – nonostante i sintomi “sospetti” di polmonite in atto, quali febbre molto alta e improvvisa diminuzione della temperatura corporea e le continue sollecitazioni della madre – e poi, per non aver formulato una corretta diagnosi. Per la pediatra si trattava di semplice influenza.

Eppure a distanza di poche ore si verificava la morte del bambino.

Secondo i giudici della corte territoriale non vi erano dubbi: si trattava di un caso lampante di grave negligenza e imperizia che non avrebbe sottratto la dottoressa dalla pesante accusa (e poi condanna) per omicidio colposo.

Nel corso del giudizio erano emersi dati inconfutabili. “In occasione della visita alle ore 18.00, ella non misurò la temperatura del bambino, sottovalutando palesemente il quadro complessivo che aveva davanti, connotato da un abbassamento forzoso della temperatura non accompagnato dal benessere generale del piccolo paziente. In occasione della stessa visita non riscontrò alcun rumore polmonare, pur essendosi resa conto delle difficoltà respiratore del piccolo e senza alcun tipo di approfondimento prescrisse l’antibiotico”.

I giudici dell’appello avevano, inoltre, evidenziato che dall’ultima visita domiciliare e dall’intervento del 118 chiamato dalla madre al peggioramento delle condizioni respiratorie del piccolo erano passate poco più di due ore.

Il giudizio di Cassazione e la decisione

I giudici della Suprema Corte, senza minimamente esitare, hanno confermato la decisione dei giudici di merito.

Di fondo – affermano i giudici della Cassazione  – è stato correttamente e congruamente addebitato alla pediatra un atteggiamento ingiustificatamente “attendista” e di generale sottovalutazione del quadro clinico del paziente, nonostante i sintomi manifestati avrebbero dovuto indurre ad un approccio ben diverso, sia attraverso l’immediata visita domiciliare (o presso il suo studio) del paziente, sia mediante il pronto indirizzamento del medesimo in ambiente ospedaliero, tenuto conto del rilevate peggioramento delle sue condizioni di salute.

Sul piano del nesso causale, il giudice di primo grado aveva omesso di statuire che l’omessa osservazione clinica del bambino, in particolare l’omessa auscultazione, aveva impedito la stessa possibilità di formulare una corretta diagnosi: il comportamento alternativo lecito avrebbe invece potuto consentire di rilevare i segni di quanto stava gravemente accadendo e avrebbero dovuto indurre la pediatra a prescrivere ulteriori accertamenti radiografici.

In proposito, con riferimento alla patologia che ha condotto alla morte del piccolo paziente, gli studi scientifici hanno evidenziato che c’è un rapporto statistico secondo cui il rischio di morte si riduce fortemente nei casi di pazienti aggrediti sul piano terapeutico in maniera tempestiva ed efficace.

Nessuna presunta colpa lieve; la condotta della pediatra è pienamente ascrivibile alla grave negligenza e imperizia. Confermata dunque, la sentenza di condanna.

Avv. Sabrina Caporale

 

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