Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 15 ottobre 2013 – 27 gennaio 2014, n. 1585

Quello del mantenimento dei figli maggiorenni rappresenta, oggi, un tema di pregnante attualità che ha notevoli implicazioni sul piano pratico e che continua a tenere impegnate le Corti, chiamate a stabilire, caso per caso, i limiti e le condizioni di un obbligo che trova fondamento in un preciso quadro normativo.

Il dovere di mantenimento dei figli consiste, infatti, in un obbligo di natura costituzionale poiché espressamente indicato dall’art. 30, 1° co. Cost. e dalle altre norme internazionali a tutela della famiglia e dei minori (art. 18, conv. New York 1989, rat. L. 176/1991).

Secondo il consolidato indirizzo della dottrina e della giurisprudenza esso sussiste in capo al genitore per il solo fatto della procreazione, indipendentemente dal riconoscimento o meno della filiazione (Cass., civ., Sez. I, 21.6.1984, n. 3660; Cass., Civ., Sez. III, 15.5.2003, n. 7386).

Esso, inoltre, rientra, tra i primi fondamentali obblighi verso i figli imposti ai genitori ai sensi dell’art. 147 c.c.; e la sua prevalenza rispetto all’istruzione, all’educazione e agli altri doveri genitoriali non dipende tanto dal fatto che questi ultimi siano meno rilevanti del primo, ma dalla semplice considerazione che il soddisfacimento di questi dipenda in buona sostanza dalla concreta prestazione dei mezzi economici da parte dei genitori.

Tale obbligo non viene meno neppure con il raggiungimento della maggiore età dei figli.

La legge n. 54/2006 all’art. 155-quinquies sul punto prevede espressamente che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico“.

Non si tratta, tuttavia, di un obbligo protratto all’infinito, ma dalla “durata mutevole” da valutare caso per caso (Trib. Novara n. 238/2011).

Esso, dunque, è subordinato alla coesistenza di due requisiti.

Il primo di natura oggettiva, relativo al mancato raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli.

Il secondo di natura soggettiva, relativo all’incolpevolezza del mancato raggiungimento di tale indipendenza economica, la quale a sua volta deve essere ravvisata nell’attribuzione di una capacità reddituale sufficiente a rendere il figlio capace di provvedere a quelle stesse necessità di vita che l’obbligo di mantenimento da parte del genitori è teso a sopperire.

L’indipendenza economica non deve pertanto essere intesa in senso di assolutezza bensì in senso formale. E il raggiungimento della stessa non si ricollega necessariamente alla cessazione della convivenza familiare né deve essere fatta coincidere con l’attribuzione di un qualsiasi reddito, semmai irrisorio od occasionale, ma molto spesso viene invece correlata al comportamento dei figli stessi. (Ancheschi).

La giurisprudenza ha ad esempio ritenuto che non debba considerarsi esente da colpa il comportamento del figlio studente che non sia in grado di raggiungere sufficienti livelli di profitto scolastico, oppure quello del figlio che non sia in grado di mantenere una posizione lavorativa stabile o che non faccia sufficienti sforzi per trovare un adeguato impiego lavorativo, benché ciò sia da porsi in relazione alle concrete circostanze del proprio ambiente sociale.

Sotto questi profili la giurisprudenza ha dimostrato orientamenti differenti, individuando il momento di cessazione del diritto al mantenimento ora sotto il profilo teorico, identificandolo, ad esempio, con il raggiungimento di una determinata qualifica professionale, ora sotto quello pratico, identificandolo con la concreta percezione di un reddito autonomo.

Secondo la giurisprudenza: “non può ritenersi, idonea ad esonerare il genitore non convivente dall’obbligo di mantenimento l’offerta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo essa risultare, per converso, del tutto idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del giovane, sì da far ritenere il suo eventuale rifiuto privo di qualsivoglia accettabile giustificazione”. (Cass. Civ., Sez. I, 7.5.1998, n. 4616).

In ogni caso, la valutazione del Giudice non deve sottrarsi al principio di proporzionalità secondo il quale la concreta capacità e possibilità di lavoro devono essere rapportate alle aspirazioni del figlio, sempreché queste siano destinate ad essere fruttuose, secondo un criterio di ragionevole durata.

Ebbene, con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito lo stesso principio, affermando che se è vero che in linea generale il matrimonio comporta il venir meno dell’obbligo di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli, tale obbligo, tuttavia, non viene meno nell’ipotesi in cui i figli sposati continuino a vivere assieme ai genitori, proprio in ragione delle loro difficoltà economiche.

Nel caso in esame, la figlia dei genitori in questione aveva contratto matrimonio con un cittadino straniero ma aveva continuato a vivere con la madre, che si era separata dal marito. A seguito della separazione della madre, al padre era stato posto l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento in favore della madre. Dopo il matrimonio della figlia, il padre si rivolgeva al Tribunale competente chiedendo di essere esonerato dal suddetto pagamento, dal momento che la figlia aveva contratto matrimonio e, quindi, doveva ritenersi economicamente indipendente.

In verità, dunque, secondo i giudici della Cassazione il semplice matrimonio non basta! Laddove, infatti, i neo coniugi continuino a vivere con i propri genitori, a causa delle loro ristrettezze economiche, non si realizza alcun cambiamento nella loro vita e pertanto non verrà meno neppue l’obbligo dei genitori di provvedere al loro mantenimento, fino a quando questi non potranno dirsi finalmente, economicamente, autosufficienti.

 Avv. Sabrina Caporale

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