La Cassazione nega, nuovamente, la possibilità di riproporzionare i permessi 104 per assistenza al disabile grave in caso di part-time, trattandosi di diritti fondamentali per loro natura non comprimibili

Il lavoratore part-time ha diritto a tre giorni di permesso mensile per assistenza a familiari con grave handicap ai sensi della legge 104/92 art. 33 (permessi 104)

Si esprime in questi termini la Sezione Lavoro della Suprema Corte, con la sentenza 20.2.2018 n. 4069 qui in commento che ha deciso smontando la base giuridica della tesi datoriale in forza della quale sarebbe possibile riproporzionare i permessi concessi in base alla citata legge 104, in ragione del rapporto di lavoro part-time del richiedente.

Nel caso di specie il riproporzionamento era stato posto in essere in applicazione delle direttive desumibili da una circolare INPS sul punto che peraltro non può essere o avere effetti contrari al dettato normativo in quanto atto meramente regolamentare che esula dal novero delle fonti legislative.

Secondo l’argomentato della Corte, come detto, la tesi datoriale è priva di una base giuridica accettabile in ragione della funzione giuridica dei permessi dei quali i giudici di legittimità sono chiamati, nuovamente, ad occuparsi.

La Corte infatti esplicitamente richiama e conferma il proprio recente precedente (Cass. SL 29.9.2017 n. 22925) emesso nei confronti del medesimo datore di lavoro stabilendo che il permesso mensile retribuito di cui all’art. 33 comma 3 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, costituisce espressione dello stato sociale, che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni ed incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave.

Al di là e oltre le singole sensibilità il permesso rimane uno strumento di politica socio assistenziale basato sul riconoscimento della cura a persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla conseguente valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed anche intergenerazionale, che trova base giuridica nel principio generale di non discriminazione incamerato dalla legislazione italiana in forza della giurisprudenza comunitaria e sovranazionale.

Si tratta in ultima analisi di una misura volta alla tutela della salute psicofisica della persona con disabilità quale diritto fondamentale dell’individuo che – giova ricordarlo in questa sede – non è il lavoratore ma la persona disabile, sulla falsariga in primo luogo della stessa legge e di precedenti giurisprudenziali del Giudice delle Leggi che postulano e giustificano l’adozione di interventi anche indirettamente economici, di sostegno alle famiglie.

La finalità dell’istituto è dunque sempre stata – e la pronuncia in commento non manca di confermarlo- è quella di assicurare in via prioritaria la continuità delle cure e dell’assistenza che si realizzino nell’ambito familiare, al di là ed oltre rispetto a considerazioni anagrafiche o di parentela.

Il diritto all’assistenza è considerato un diritto fondamentale non comprimibile e le considerazioni che precedono, in uno con la pregnanza degli interessi di rilievo costituzionale in quanto connessi a diritti fondamentali dell’individuo, che continuano ad essere discussi, si impone una ricerca dello strumento maggiormente aderente alle esigenze di effettività della tutela, in applicazione delle indicazioni sempre più pressanti che ci derivano dalla giurisprudenza comunitaria, sulla base giuridica del principio di uguaglianza e di non discriminazione.

Proprio applicando il pilastro centrale della politica sociale comunitaria, occorre tenere distinti istituti a connotazione patrimoniale e che si pongono in stretta correlazione con la durata della prestazione lavorativa, rispetto ai quali il riproporzionamento è ammesso, sia pure con il supporto di contrattazioni collettive nei vari livelli attualmente possibili, e l’ambito dei diritti connotazione non direttamente patrimoniale che è necessario salvaguardare da qualsiasi ipotesi di riduzione connessa alla minore durata della prestazione lavorativa, ricollegandosi il divieto a peculiari esigenze di tutela, rimanendo stabilito che il lavoratore a tempo parziale benefici dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile.

Ogni diverso comportamento importerebbe discriminazione indiretta per causa di disabilità che si qualifica come qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione che abbia l’effetto di pregiudicare o annullare il godimento o l’esercizio su base di uguaglianza con altri di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto (ingiustificato di un accomodamento ragionevole)

Fatte queste premesse si impone – a mente della sentenza in commento- una interpretazione comparativa delle esigenze dei soggetti coinvolti arrivando a riconoscere l’integrale fruizione dei permessi 104 in ragione della articolazione, nel caso concreto, dell’orario di lavoro, con applicazione diretta del principio di obbligatorietà dell’accomodamento ragionevole, quando non eccessivamente oneroso.

Avv. Silvia Assennato

(Foro di Roma)

 

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