Si può entrare nel profilo Facebook di qualcun altro senza il suo consenso? La domanda non è posta a caso perché nella vicenda in esame, i giudici della Cassazione hanno dovuto pronunciarsi su un presunto caso di accesso abusivo in un sistema informatico (di cui all’art. 615 ter c.p.) commesso da un marito, che aveva fatto accesso al profilo facebook della moglie

Ebbene, in primo grado l’uomo era stato condannato alla pena di legge perché non soltanto era entrato “abusivamente” nel profilo facebook della compagna, attraverso il nome e le password da questa utilizzate all’ultimo accesso; ma così facendo aveva potuto anche fotografare una chat intrattenuta (da quest’ultima) con un altro uomo per poi cambiare la password e impedirle l’accesso al social network.

La sentenza confermata in appello veniva poi impugnata dinanzi ai giudici della Suprema Corte di Cassazione, che tuttavia dichiarava il ricorso inammissibile.

Ancora un caso in cui il ricorrente tenta di ottenere in sede di legittimità una rilettura dei fatti e una rivalutazione giuridica della fattispecie; operazione che come è noto è preclusa ai giudici della Cassazione, trattandosi al contrario, di una facoltà che si esaurisce col giudizio d’appello.

Come si legge nelle motivazioni di Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, tale impostazione si risolve nella pretesa di ottenere dinanzi alla Corte di cassazione un giudizio di fatto che non le compete, dal momento che esula dai poteri del Giudice di legittimità quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.

Di contro la Corte territoriale aveva fornito una motivazione che – a detta degli Ermellini – è stata correttamente e razionalmente valutata in vista della accertata convergenza di tutta una serie di elementi: il dato – incontestato – che il ricorrente avesse le credenziali di accesso a Facebook della moglie, il fatto che quella stessa mattina egli si era presentato alla moglie mostrando la chat “incriminata” (e poi producendola nel giudizio di separazione); nonché la circostanza obiettiva della connessione servita per modificare la password, avvenuta dalla casa del padre dell’imputato.

Abusivo accesso in un sistema informatico

La Cassazione però affronta anche un altro tema. Non può trascurarsi l’ulteriore dato, pure evidenziato dalla difesa del ricorrente, che sarebbe stata proprio la moglie, in tempi non sospetti (ossia prima del lacerarsi della loro relazione) a comunicargli le password di accesso al social network.

Ebbene, se così fosse non avrebbe alcun senso discutere dell’eventuale configurazione del reato di “accesso abusivo”, posto che vi sarebbe stata una autorizzazione, ancorché implicita, dalla persona interessata.

Ma non è quello che pensano i giudici della Cassazione, perché a prescindere da quest’ultima riflessione, giova comunque osservare che la circostanza che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso – non escluderebbe comunque il carattere abusivo degli accessi sub iudice. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi. (Sez. 5, n. 52572 del 06/06/2017).

Il ricorso è stato perciò dichiarato inammissibile e l’uomo condannato alla pena di legge.

La redazione giuridica

 

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