Un ctu confuso ha indotto in errore anche il Giudice la cui attenzione, comunque, non è stata delle migliori: dalla massima di una sentenza di cassazione delle conclusioni errate

In sintesi (maggiori dettagli nella CTU e nella sentenza allegate di seguito), trattasi di una donna che per una frattura pertrocanterica veniva ricoverata per una riparazione chirurgica della frattura e, a seguito di tale ricovero, subiva la comparsa di piaghe da decubito che la conducevano a morte nel giro di qualche mese, dopo un viavai di ricoveri in vari istituti di cura.
Il CTU concludeva che la comparsa delle piaghe da decubito era causata da una gestione negligente della paziente le cui conseguenze furono rappresentate da una sepsi fulminante che la condussero a morte.
Più precisamente le conclusioni del ctu furono le seguenti (in seguito riportate in sentenza):
“…Da quanto sopra esposto emerge in modo evidente, che l’evento lesivo che ha portato alla formazione delle ulcere da decubito si è verificato in conseguenza del comportamento imprudente, negligente e/o omissivo dei medici e del personale sanitario operante nella Unità Chirurgica dell’Istituto FF:

  • mancato controllo delle condizioni di degenza in una paziente diabetica; .
  • mancata prevenzione delle ulcere da decubito in soggetto che presentava altissimi fattori di rischio per il loro sviluppo (paziente fragile);
  • mancata adozione dei presidi sanitari (ciambellae/o materasso antidecubito) da parte della struttura ospedaliera,

Le inadempienze individuate hanno comportato danni irreversibili alla salute della paziente caratterizzati da vasta ulcera sacrale e calcaneare sinistra croniche, con effetti secondari così riassumibili:

  • stato settico locale persistente;
  • defedamento progressivo;
  • difficoltà riabilitative, che non possono essere riferite agli esiti ortopedici in quanto, alla luce del dato radiografico, essi apparivano soddisfacenti, non impedendo, di fatto, le capacità deambulative della paziente;
  • permanente allettamento.

Per quanto riguarda il rapporto di causalità tra le lesioni da decubito e l’exitus della paziente non si può prescindere dal considerare le patologie preesistenti che hanno concorso, con ragionevole certezza, a determinare un quadro di progressivo decadimento psico fisico che ha portato alla morte per setticemia.
… Nella fattispecie la paziente era affetta da demenza post meningitica con evidenza alla tac cerebrale di segni di leucoencefalopatia cronica, diabete mellito ed ipertensione arteriosa…
Tenuto conto delle particolari condizioni patologiche di cui era affetta, si ritiene che le suddette lesioni da decubito siano da considerarsi concausa al 60% (sessanta percento) nella morte della paziente.”.
Premesso quanto sopra, spieghiamo come il ctu, attraverso l’uso scorretto del termine concausa, abbia fuorviato il giudizio del Giudice, malgrado la conclusione di legame causale di “certezza probabilistica” tra infezione e decesso.
Il ctu ha affermato che l’ipertensione associata al diabete mellito e alla leucoencefalopatia cronica abbiano concorso con certezza a determinare un quadro di progressivo decadimento psico-fisico che ha portato a morte il paziente per setticemia.
Un paziente di 65 anni, malgrado la demenza post meningitica, l’ipertensione e il diabete, non può dirsi predisposto alla morte se subisce una sepsi, in quanto lo stato fisico non è deficitario tanto da concorrere (favorire l’) all’insorgere di una infezione: queste condizioni favorenti possono essere favorite efficientemente da una immunodepressione del paziente constatabile già all’ingresso in ospedale (fatto che nel caso in esame non era documentato). Solo una tale situazione poteva incidere sul nesso di causa tra sepsi e morte (e quindi concorrere alla riduzione del risarcimento fino all’azzeramento di esso) in quanto si si sarebbe potuto affermare che, verosimilmente, senza l’immunodepressione non si sarebbe instaurata una infezione e quindi una setticemia.
Nel caso de quo invece appare certo che senza la comparsa delle piaghe da decubito e una loro migliore gestione la sepsi non sarebbe insorta e il decesso non sarebbe avvenuto.
Quindi partendo dal concetto che siano accertati:

  1. una sufficiente salute fisica della paziente tale da poter essere sottoposta a un intervento chirurgico e superarlo;
  2. il danno evento costituito dalla comparsa delle piaghe da decubito e la loro successiva infezione che ha condotto a morte il paziente e dovute alla negligente gestione del paziente;

occorreva che il giudice valutasse il risarcimento del danno conseguenza della malpractice, ossia l’evento morte e dunque la lesione del tessuto familiare e l’eventuale danno da agonia associato alle gravi sofferenze psico-fisiche legate al progressivo defedamento del paziente che lo hanno condotto a morte.
Invece il Giudice che fa? Confonde le cause naturali che da sole non sarebbero state capaci di portare a morte la paziente (almeno nei tempi e nei modi in cui si sono verificati) con le concause efficienti a produrre il danno (evento morte) e riduce proporzionalmente il risarcimento (al 60%) agli eredi in barba alla migliore giurisprudenza di Cassazione (29/02/2016 n. 3893 – 21/07/2011 n. 15991 – 975/2009) che proibisce tale modo di operare.
In sintesi l’errore è stato quello di trattare l’evento di danno e la sua conseguenza come un maggior danno in soggetto vivente (come tutti i casi trattati dalle sentenze di Cassazione di cui sopra) dove era possibile quantificare ex ante i postumi attesi e la loro incidenza eventuale sul patrimonio del soggetto leso (danno differenziale).
Quando si tratta di un danno conseguenza costituito dalla morte è l’evento morte che va risarcito in quanto è diretta conseguenza del fatto illecito senza il quale non si sarebbe verificato e non potrà applicarsi la riduzione del risarcimento con l’applicazione sine senso di una quantità % pari a quella probabilità logica efficiente che ha condotto a morte il soggetto mal curato (nel caso de quo il 60%).
Per migliore comprensione si riporta un passo importate della sentenza 15991 del 2011 dove si legge:
“Deve pertanto (come osserva ancora una attenta dottrina) operarsi una netta differenziazione fra situazioni tra loro eterogenee, quali:
da un canto, quelle in cui il danneggiato, prima dell’evento, risulti portatore di una mera “predisposizione” ovvero di uno “stato di vulnerabilità” (stati preesistenti non necessariamente patologici o invalidanti, ciò che risulta ancor più frequente nel delicato universo dei danni psichici), ma l’evidenza probatoria del processo non consenta, in proposito, di superare la soglia della mera ipotesi, e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dall’evento di danno, risultata modificativa in senso patologico-invalidante della situazione del soggetto: in tal caso, il giudice non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un’opposta soluzione condurrebbe ad affermare l’intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri consociati affetti da “normalità”; dall’altro, quelle in cui il danneggiato già presenti, prima dell’evento dannoso, una reale e conclamata patologia, tale (in base a prova da fornirsi dal danneggiante, anche attraverso la documentazione di quella complessa vicenda relazionale che conduce al cd. consenso informato) da rendere le conseguenze dell’evento rigorosamente configurabilì, sul piano probabilistico, alla stregua di un aggravamento dello stato patologico pregresso (o della perdita di chance di evitare o differire la degenerazione della situazione preesistente): in tal caso, la valutazione del quantum risarcitorio, con un suo eventuale adeguamento alla situazione de qua, deve ritenersi astrattamente legittimo, pur se l’eventuale riduzione del risarcimento dovrà seguire un iter ben preciso, non potendosi nè ipotizzarne una automatica riduzione, nè una quantificazione secondo un criterio strettamente proporzionale, espresso, cioè, in termini strettamente percentualistici della conseguenza naturale rispetto alla conseguenza dannosa imputabile”.
Da tale sintesi si evidenzia tutto ciò che non ha fatto il giudice di prime cure nel valutare la relazione non congrua del proprio CTU. In verità il giudice avrebbe dovuto chiamare a chiarimenti il CTU domandandogli se senza la complicanza delle piaghe da decubito e la successiva sepsi il paziente sarebbe deceduto. In caso di risposta affermativa del ctu, il giudice non solo avrebbe potuto (come ha fatto) imputare alla causa umana il decesso, ma avrebbe ritenuto le concause naturali (preesistenze) non idonee a ridurre il quantum debeatur così come invece ha fatto.
Vorrei schematizzare quanto si può desumere dal caso discusso proprio per far comprendere come e quando le cause naturali possono incidere causalmente sulla produzione del danno sia in termini di An che di quantum debeatur.
AN Debeatur:

  • le concause naturali escludono il nesso di causalità quando da sole sono sufficienti a produrre un danno e quindi a escludere la causalità umana ove presente, altrimenti il concorso di concause plurime vale esclusivamente tra più condotte umane.

QUANTUM DEBEATUR:

  • quando le concause naturali sono già invalidanti e il soggetto subisce un’ulteriore vulnus alle sue condizioni di salute – in questo caso si calcola il danno differenziale costituito dal danno globale al momento della valutazione e il postumo atteso dall’intervento terapeutico;
  • quando le concause naturali sono prive di effetti invalidanti e il soggetto subisce una menomazione della sua salute con conseguenze invalidanti – in questa ipotesi il giudice di merito dovrà determinarsi nel senso dell’irrilevanza dello stato patologico pregresso, salva rigorosa dimostrazione che gli effetti invalidanti si sarebbero comunque verificati a prescindere dalla concausa imputabile: il risarcimento è dovuto per intero.
  • quando le concause naturali rappresentano solo uno stato di invalidità potenzialmente non idoneo (di per sè e nell’immediatezza) a produrre esiti mortali e il paziente decede in conseguenza dell’intervento medico (commissivo od omissivo) – in tal caso lo stato di invalidità pregresso non potrà rilevare quanto ai danni risarcibili iure proprio ai congiunti, mentre potrebbe condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis (danno catastrofale), sempre che il danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell’evento (la morte) sia stata cagionata anche dal pregresso stato di invalidità;
  • quando le concause naturali sono idonee a condurre il paziente alla morte a prescindere da eventuali condotte di terzi e questi decede a seguito dell’intervento (commissivo od omissivo) – la risarcibilità iure proprio del danno patrimoniale e non patrimoniale – riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto.

Insomma questo è lo schema razionale dettato dalla S.C. di Cassazione del 2011 e condiviso dal sottoscritto in quanto “logico e razionale” anche secondo la migliore dottrina medico legale.
In conclusione, è una sentenza da appellare in quanto è indebita la riduzione del risarcimento effettuata dal Giudice di prime cure.

Dr. Carmelo Galipò

(Pres. Accademia della Medicina Legale)

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