L’imputata si era consapevolmente e reiteratamente sottratta alla valutazione dell’urgenza dell’atto di ufficio, violando le regole di condotta previste dalla linee guida

Era stata condannata in sede di merito ex art. 328 del codice penale per il reato di rifiuto di atti di ufficio. La donna, in qualità di operatore della centrale operativa del 118, era accusata di aver violato le regole di condotta previste dalle linee guida. In particolare, nel corso di tre conversazioni telefoniche intercorse nel giro di pochi minuti, non aveva raccolto i dati necessari e sufficienti previsti dal protocollo operativo. Inoltre, non aveva effettuato la cosiddetta ‘intervista’ contemplata dalle procedure che deve avere un tempo medio di 60 secondi. Le tre telefonate avevano avuto, infatti, una durata massima di 44 secondi.

Secondo l’ipotesi accusatoria, infine, l’imputata non aveva attribuito un codice di criticità/gravità adeguato alla richiesta di intervento. La donna avrebbe consigliato ai suoi interlocutori di rivolgersi alla guardia medica; ipotesi, questa, contemplata solo in caso di codice di emergenza bianco. Nel caso in esame il codice di emergenza, invece, era rosso, come rilevato successivamente presso la struttura in cui il paziente si era recato.

Nel ricorrere per cassazione l’imputata lamentava la mancanza di prove decisive a supporto di una condotta dolosa che evidenziasse l’effettiva integrazione del reato contestato.

Ciò tenuto anche conto che la perizia medico-legale acquisita agli atti individuava una condotta colposa che non aveva inciso sulla verificazione causale della morte del paziente in termini di alto grado di credibilità razionale.

La ricorrente sottolineava, inoltre, il carattere presuntivo dell’attribuzione del codice di criticità sulla base delle informazioni ricevute al telefono. Nel caso in questione, pertanto, non sarebbe stato configurabile il dolo generico richiesto per l’integrazione del reato contestato. Non era infatti emerso in alcun modo che la sua condotta fosse attribuibile a un cosciente e volontario rifiuto di prestare soccorso.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 40799/2018, ha ritenuto di respingere il ricorso in quanto infondato.

Gli Ermellini hanno infatti chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo. Pertanto, “la violazione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica, ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall’ordinamento, prescindendosi dal concreto esito dell’omissione”.

Quanto all’elemento soggettivo, inoltre, il rifiuto di atti professionali per ragioni sanitarie, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso. In particolare, con riferimento alla consapevolezza del contegno omissivo, senza tracimare in violazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato.

Nel caso in esame, il Giudice a quo aveva correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali alla stregua dei rilievi e delle censure formulate nell’atto di appello. La Corte d’appello aveva correttamente ritenuto che la ricorrente non avesse esercitato malamente una discrezionalità tecnica. L’imputata si era invece consapevolmente e reiteratamente sottratta alla valutazione dell’urgenza dell’atto di ufficio, violando le regole di condotta. Aveva omesso il mirato approfondimento telefonico imposto dalle linee-guida e aveva invitato le parti in maniera reiterata e inappropriata a rivolgersi alla guardia medica.

 

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