Negli ultimi anni il numero delle domande di risarcimento per i danni causati al paziente da condotte colpose del medico sono aumentate in maniera esponenziale; così come pure sono aumentate, le pronunce di condanna nei confronti dei medici, tanto che la materia è diventata da subito oggetto di interesse della dottrina e della giurisprudenza.

La rilevanza del fenomeno però, non può essere limitato al semplice dato statistico del numero delle controversie giudiziali in materia, ma deriva piuttosto dal mutato atteggiamento della giurisprudenza che, nel corso degli anni, pare aver elaborato delle regole ad hoc relativamente al settore della responsabilità in campo medico-professionale. Tanto è vero che alcuni autori hanno insisitito per la necesità di procedere verso una separazione netta e decisa della responsabilità professionale in campo medico, da analoghe forme di responsabilità professionale. Non di “responsabilità del medico” – si è detto – ma di “responsabilità medica” deve parlarsi, concepita come vero e proprio “sottosistema” della responsabilità (ALPA, La responsabilità medica, in Resp. Civ. prev., 1999, 316).

Ebbene, anche il medico, come qualsiasi altro soggetto, non può essere chiamato a rispondere del danno causato, qualora questo non sia derivato da dolo o colpa. Anzi, in teoria, la responsabilità del medico – come quella di qualsiasi altro professionista – è attenuta in base al disposto dell’art. 2236 c.c., in virtù del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, il professionista risponde soltanto se versa in colpa grave. In ogni caso, quando si parla di causalità, il primo problema da affrontare consiste nell’individuare, a seconda del tipo di indagine da svolgere, il tipo e la natura della causa che interessa, poiché il concetto di causa non è univoco. Innanzitutto, vi può essere un rapporto di causa ed effetto per così dire di tipo esclusivamente materiale; nel senso che un determinato evento è stato provocato da un fatto materiale. (Caringella, Studi di diritto civile, Volume 3)

Altre volte, questo tipo di causalità si interseca con la condotta umana. E allora il problema dell’accertamento, diventa questione assai più complessa. Occorre, infatti, in questi casi accertare se l’uomo, con la sua azione di omissione abbia fornito un qualche contributo causale al verificarsi dell’evento, nel senso che, senza il suo intervento l’evento materiale non si sarebbe prodotto. Si parla anche in questi casi di causalità della condotta. È ovvio che molto spesso, le due tipologie di causalità, possono coincidere; nel senso che il fatto materiale che ha causato l’evento, sia derivato dall’opera dell’uomo. È quanto solitamente accade nelle ipotesi di responsabilità medica. Si tratta, in questi casi, di accertare se il medico, tenuto il comportamento “alternativo” corretto, avrebbe evitato pregiudizi per il paziente (la morte o un diverso danno alla salute a seconda dei casi).

Nel caso della morte di un paziente a fronte di un medico che abbia con colpa omesso o ritardato le cure dovute, occorre in primis individuare quali avrebbero dovuto essere queste ultime e poi affermare se le stesse avrebbero evitato o meno l’evento letale. (Caringella, Studi di diritto civile, Volume 3). Non solo. La difficoltà maggiori in materia, risiedono soprattutto, nella difficoltà di stabilire se l’evento così come ricostruito sia da attribuire ad una responsabilità di natura omissiva o commissiva. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, sono presenti contemporaneamente condotte attive e passive che interagiscono tra di loro e che, perciò stesso, rendendone ancora più difficile l’accertamento della causalità.

Il parere errato dei medici e la terapia inidonea somministrata al paziente possono essere ritenute causa della morte, oppure è la mancanza di un parere corretto o la mancata somministrazione della terapia corretta ad aver provocato la morte del paziente? Ebbene, di fronte alla morte di un paziente cui siano state omesse, ritardate o mal effettuate delle cure, è possibile allo stato delle conoscenze scientifiche del momento, individuare quale sarebbe stata la migliore cura del caso. Non è invece mai possibile affermare con certezza che quelle cure, se praticate, avrebbero salvato la vita del paziente. È evidente, allora, che ci troviamo di fronte ad un necessario giudizio prognostico ex post e quindi non ad un rapporto di causalità vero e proprio, ma ad un suo equivalente. (Caringella, cit.)

Ora, posto che la teoria della causalità accolta dal nostro codice è quella della «condicio sine qua non», si tratta di capire – con riguardo alle ipotesi di reati omissivi impropri – quale sia la condotta positiva, che se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell’evento. Si tratta di operare quello che è meglio conosciuto tra gli operatori del diritto, come giudizio controfattuale (ossia «contro i fatti»: se l’intervento omesso fosse stato adottato si sarebbe evitato il prodursi dell’evento? Se l’intervento che ha provocato l’evento non fosse stato fatto il paziente si sarebbe salvato?). (Il controfattuale, si è detto, è un «periodo ipotestico della irrealtà. Nel suo antecedente si ipotizza la falsità di una certa proposizione che si sa essere vera, mentre nel suo conseguente si enuncia una conseguenza della supposizione contenuta nell’antecedente» (Pizzi, Eventi e cause. Una prospettiva condizionalistica, Giuffrè, 1997, VII).

Già da tempo, le Sezioni Unite della Cassazione, con la nota sentenza Franzese (Cass. Sez. Un., 11.9.2002, n. 30328, in Dir. E giust. 2002, fasc.35,21), hanno affermano la validità del ricorso al giudizio controfattuale citato, a scapito del vecchio concetto di “serie ed apprezzabili possibilità di successo”, in materia di accertamento della responsabilità omissiva. Hanno, in altre parole, affermato – i giudici della Corte – la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, provenga da “attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune ovvero facendo ricorso generalizzante alla sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche che consente di affermare di volta in volta, che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle conseguenze che le indicate leggi di copertura consentono di ritenere aver provocato l’evento”. (Si, è parlato al proposito di «probabilità logica» che a differenza di quella « statistica», consente la verifica aggiuntiva all’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo evento).

Di recente anche la IV Sezione Penale della Cassazione, ha chiarito che la risposta sulla sussistenza o meno del nesso eziologico non può essere «esaustivamente e semplicisticamente trovata, sempre e comunque, nelle leggi statistiche». (Si veda, Cass. Pen., Se. IV, 2 aprile 2007, n. 4177), ma neppure può affermarsi che queste debbano essere completamente trascurate, in quanto costituiscono soltanto «uno degli elementi che il giudice può e deve considerare, unitamente a tutte le altre emergenze del caso concreto». La sentenza Franzese, ha inoltre stabilito che laddove sussista un ragionevole dubbio in merito all’effettiva efficacia eziologica della condotta omissiva del medico, l’ipotesi accusatoria viene ad essere neutralizzata, con conseguente esito assolutorio del giudizio.

Ebbene, le argomentazioni fin ora esposte, permettono di commentare un’ulteriore sentenza che i giudici della Cassazione, ancora una volta hanno pronunciato in materia di accertamento della responsabilità del sanitario. Si tratta della sentenza 12 novembre 2013 -20 febbraio 2014, n. 8073, Cass. Pen., Sez, IV. Ipotesi nella quale, conformemente a quanto già affermato in sede di giudizio di merito, la Suprema Corte negava la sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l’evento mortale di una paziente generato da «sepsi» contratta in sala operatoria e degenerata, poi, in una grave infezione causa del decesso. Il medico, in particolare, era stato accusato per non aver interrotto lo stato degenerativo della malattia, limitandosi – piuttosto – a trattare la complicazione post operatoria con una terapia antibiotica anziché rimuovere la protesi.

Il giudizio di accertamento della responsabilità, non aveva tuttavia prodotto sufficienti elementi di prova tali da far ritenere indiscutibilmente dimostrata la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta e l’evento mortale. Osservava allora, la Corte territoriale che “la terapia attendista era stata giudicata dai periti non censurabile e che la malattia si era manifestata in tutta la sua aggressività nel periodo successivo al trasferimento e al cambio di terapia, questi ultimi non imputabili al medico; che – ancorché fosse stato ritenuto censurabile l’operato dell’imputato (…), per non aver disposto più approfondite indagini sulla natura dell’infezione e sulla situazione in sede di impianto protesico – era da ritenere, in ogni caso, che anche il trattamento corretto della complicanza infettiva non avrebbe potuto garantire in maniera certa e assoluta la sopravvivenza, avendo il perito rilevato che, in ragione della comparsa di infezione da «Pseudomonas» e, tenuto conto delle condizioni generali del soggetto, le possibilità di sopravvivenza del paziente non erano comunque superiori al 35-40% anche in ipotesi di trattamento adeguato.

Considerati perciò, i coefficienti medio bassi di probabilità, per cui, anche sostituendo all’omissione il comportamento alternativo corretto, l’evento lesivo non si sarebbe realizzato con alto grado di credibilità razionale”, non poteva che dichiararsi l’assoluta insussistenza di responsabilità in capo all’imputato, che pertanto andava prosciolto. Come è stato più volte affermato sia, in dottrina che in giurisprudenza, il rapporto causale, sia nella casualità commissiva che in quella omissiva, va riferito non solo al verificarsi dell’evento prodottosi ma anche in relazione alla natura e ai tempi dell’offesa nel senso che dovrà riconoscersi il nesso di condizionamento in questione non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia stato provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani. (Caringella, Studi di diritto civile, Volume 3).

 Avv. Sabrina Caporale

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