Cari lettori, in questo articolo mi occuperò dell’istituto giuridico della ingiusta detenzione, soffermandomi, in particolare, in merito a quanto statuito dalla Suprema Corte Penale, sez 4, nella sentenza individuata dal n° 112, pronunciata il 9 gennaio 2012

Tuttavia, prima di addentrarci nel merito di quanto affermato dalla Suprema Corte, è opportuno effettuare delle brevi precisazioni, di tipo prettamente teorico.
Orbene, per quanto concerne la riparazione per ingiusta detenzione, occorre, innanzitutto, distinguere tra ingiustizia sostanziale, disciplinata dall’art. 314 co. 1 c.p.p., la quale presuppone la conclusione del procedimento penale con l’emissione di una sentenza irrevocabile di proscioglimento nel merito ovvero un provvedimento equivalente (quale, ad esempio, il decreto di archiviazione emesso dal G.I.P.), ed ingiustizia formale, ex art. 314 co. 2 c.p.p., la quale, per contro, presuppone l’illegittimità del titolo costitutivo della custodia cautelare.
L’istanza di riparazione per ingiusta detenzione deve essere presentata dall’interessato ovvero dal suo difensore, munito di apposita procura speciale, presso la competente Cancelleria della Corte di Appello, ed alla medesima viene acclusa tutta la pertinente documentazione, tra cui, in particolare, il provvedimento di proscioglimento dell’istante, munito dell’apposita attestazione di irrevocabilità.
Ratio dell’istituto giuridico in parola è quella di conseguire il pagamento di un importo, irrogato dallo Stato, in favore del richiedente, al quale risulta in precedenza applicata una misura cautelare personale coercitiva nell’ambito di un procedimento penale concluso poi in maniera favorevole all’imputato.
Orbene, fatte queste brevi precisazioni, di tipo squisitamente teorico, risulta opportuno ora analizzare il contenuto della sentenza n° 112/2012.
In particolare, nella vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, gli Ermellini hanno annullato l’ordinanza con cui all’interessato, soggetto pregiudicato, era stato riconosciuto un indennizzo più esiguo rispetto a quello riconosciuto ad un soggetto incensurato.
In particolare, la Corte di Appello aveva ritenuto che la persona che annovera precedenti penali annotati sul proprio certificato del casellario giudiziale risulta più “abituato” al carcere rispetto al soggetto incensurato e pertanto l’afflizione patita del primo è superiore rispetto a quella del secondo.
Nella sentenza oggetto di questa mia breve disamina, il Collegio di Legittimità ha affermato espressamente che la sofferenza è uguale è per tutti, con la conseguenza che l’importo da liquidare a titolo di indennizzo al soggetto che deposita apposita istanza non può essere ridotto in ragione del fatto che il richiedente sia un soggetto pregiudicato.
Ancora, asserisce la Suprema Corte che una precedente esperienza carceraria non può affatto determinare una riduzione della sofferenza e dunque una riduzione dell’indennizzo, con la conseguenza che elemento di discrimen tra gli importi degli indennizzi in concreto da irrogare in favore dell’istante non può certamente essere lo status del richiedente (incensurato ovvero pregiudicato).

Avv. Aldo Antonio Montella

(Foro di Napoli)

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