La Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti in merito alla circostanza in cui spintonare il cliente dal proprio negozio comporti sanzioni

Spintonare il cliente fuori dal proprio negozio può comportare dei rischi per il proprietario?
La Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 44021 del 25 settembre 2017, si è occupata proprio di un caso analogo, fornendo alcune interessanti precisazioni sul punto.
Nel caso di specie, la Corte d’appello di Napoli aveva confermato la sentenza con cui il Tribunale di primo grado aveva condannato un negoziante per i reati di “violenza privata” (art. 610 c.p.) e “lesioni personali volontarie” (art. 582 c.p.) a seguito di un alterco con un cliente.
L’uomo aveva infatti deciso di spintonare il cliente fuori dal proprio negozio, al fine di allontanarlo.
Ritenendo la decisione ingiusta, il negoziante aveva deciso di rivolgersi alla Corte di Cassazione.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello, nel confermare la condanna per “violenza privata”, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 610 c.p..
A suo avviso, questa norma prevede, ai fini dell’integrazione del reato, che sussista “l’uso della violenza o della minaccia per costringere altri a subire l’altrui comportamento”.

Spintonare il cliente fuori dal proprio negozio, non era, secondo il proprietario, un comportamento punibile in questo modo.

Per l’uomo, infatti, la condotta oggetto di contestazione rappresentava, al massimo un comportamento scortese.
E, nello specifico, “posto in essere nei confronti di una persona che si tratteneva nel negozio dell’imputato, lamentandosi della qualità della merce, contro la volontà di quest’ultimo”.
Secondo il ricorrente, inoltre, la Corte d’appello non avrebbe nemmeno dato corretta applicazione all’art. 582 c.p.
Articolo che non sarebbe applicabile quando non risulta provato “il requisito della malattia”.
Nella fattispecie, infatti, risultava attestato solamente “uno stato di ansia reattiva giudicato guaribile in giorni due”.
Inoltre, non vi era stato nessun accertamento di tipo sanitario.
Il giudice aveva fondato la propria decisione sulla base delle semplici dichiarazioni rese, “in modo colloquiale”, dalle persone offese.

Per queste ragioni, la Cassazione ha ritenuto di poter dar ragione all’imputato, rigettando il relativo ricorso, in quanto infondato.

I giudici hanno infatti sostenuto che la Corte d’appello avesse correttamente ritenuto che il comportamento contestato integrasse i reati di “violenza privata” e di “lesioni personali volontarie”.
Questo perché il reato di cui all’art. 582 c.p., può dirsi commesso “anche in presenza di fattori patologici transitori come la tachicardia o comunque le alterazioni anche non anatomiche da cui derivi una limitazione funzionale”.
Pertanto, la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall’imputato, confermando la sentenza impugnata e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 
 
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