Secondo gli esperti chiamati a testimoniare dalla difesa la condotta degli imputati sarebbe stata la più consigliabile e percorribile

Tre medici in servizio nel 2009 presso l’Ospedale di Ivrea, sono stati assolti perché il fatto non sussiste, a conclusione del processo che li vedeva imputati per il reato di lesioni colpose derivanti da presunta imperizia, imprudenza e negligenza nella valutazione della diagnosi fatta a una 38enne, vittima di un incidente domestico.
La donna, in seguito a una caduta nel giardino di casa, si era recata in Pronto soccorso lamentando un forte dolore alla caviglia destra. Le vennero diagnosticati un trauma distorsivo e una frattura del malleolo peroneale. L’arto fu immobilizzato con uno stivaletto in vetroresina e i medici le diedero appuntamento dopo una trentina di giorni. Due visite effettuate successivamente avevano confermato un decorso positivo, ma la signora continuava ad avvertire dolori e l’arto spesso si gonfiava.
Di qui la decisione di rivolgersi a degli specialisti per una valutazione ortopedica dei trattamenti operati. I consulenti interpellati avevano riscontrato una diastasi alla pinza astralgica, con edema al piede, dolori persistenti, sindrome algodistrofica e un danno biologico del 7-8% (limitata capacità di deambulazione, impossibilità a correre o fare sport, difficoltà di cammino su terreni impervi e di lavoro con sollecitazioni di carico). A loro giudizio, quindi, l’infortunio occorso avrebbe richiesto un intervento chirurgico.
La vicenda si è quindi spostata nelle aule di Tribunale, dove tuttavia gli esperti in ortopedia chiamati  a testimoniare dalla difesa hanno evidenziato come la linea di condotta adottata dai camici bianchi fosse la più consigliabile e percorribile; una scelta terapeutica ispirata al minimo disagio alla paziente, con un normale margine di danno biologico. Secondo i legali degli imputati, dunque, gli interventi chirurgici, di non esigua entità, proposti da altri consulenti, non avrebbero evitato i postumi riportati dalla paziente.
Il Giudice ha quindi ritenuto che, non essendo chiaro se un diverso tipo di condotta avrebbe potuto evitare il danno biologico, non è da ritenersi certa la sussistenza di profili di colpa. Di qui la chiusura del processo con la sentenza di assoluzione per i tre operatori sanitari.

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