(Corte di Cassazione, sez. lav., 09/05/2016 sentenza n. 9302)

Libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) o tutela del diritto alla salute del lavoratore (art. 38 Cost.)?

La domanda ha un senso se si affronta il caso che è stato di recente, oggetto di una pronuncia della Sez. lavoro della Cassazione, in materia di orario di lavoro e tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

In particolare, ci si chiede qual è il significato che l’interprete e prima ancora il legislatore ordinario debbano riconoscere al rapporto tra i due valori costituzionali? Perché in verità, giova ammettere che la questione della connessione tra tutela della salute e libertà di inziativa economica non è mai stata risolta, nei casi concreti, nel puro e semplice risconoscimento della prevalenza del primo valore sul secondo.

Al contrario, un esempio di scelta legislativa che assegna “prevalenza” alla tutela dell’iniziativa economica mediante il sacrificio della salvaguardia del diritto alla salute, si ricava dall’esame della disciplina giuridica relativa all’orario di lavoro dettata dal r.d. 15 marzo 1923, n. 692, il quale, dopo aver posto i limiti tassativi di durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro, suscettibili di essere superati in ipotesi di lavoro straordinario alle condizioni dettate dall’art. 5, contiene nell’art. 7, una clausola di salvaguardia di estremo interesse ove si prevede che «il lavoro potrà essere prolungato al di là dei limiti indicati negli articoli precedenti, nei casi di forza maggioe ed in quelli nei quali la cessazione del lavoro ad orario oramel costituisce un pericolo e danno alle persone o alla produzione».

L’interesse per questa disposizione sta in ciò, che il diritto alla tutela alla salute, rilevante qui sotto forma di salvaguardia della persona del lavoratore dall’usura derivante dal prolungamento della durata della prestazione oltre l’orario normale, è considerato – fatta eccezione per quelle ipotesi sopra menzionate – in una relazione antagonistica con la tutela della salute dei terzi ovvero con la tutela dell’attività produttiva. (Franco).

In altre parole, si pone quale limite essenziale alla salvaguardia del bene salute solo la condizione che esista un pericolo o un danno per la produzione derivante dalla cessazione del lavoro a orario normale.

Ora, pure non volendo soffermarci sui termini di danno e pericolo utilizzati dal legisaltore, appare evidente sottolineare un dato: nella norma appena citata, il legislatore “di fronte all’ambialenza tra un pregiudizio certo all’attività produttiva e una lesione eventuale alla salute, connessa al prolungamento dell’attività lavorativa oltre l’orario normale, riconosce valore preminente alla tutela del primo bene” (Franco).

Uscendo, poi, dai confini dell’ordinamento nazionale, si rammenta l’esistenza della direttiva n.93/104 CEE, che in modo del tutto analogo all’art. 7 cit., prevede che si possa derogare ai limiti della durata massima settimanale di orario di lavoto, stabiliti dalla medesima direttiva, «in caso di incidente o di rischio di incidente imminente», ovvero «nel caso di industrie in cui il processo lavorativo non può essere interrotto per ragioni tecniche». Anche in queste disposizioni si cerca di trovare un bilanciamento tra tutela della salute e tutela della produzione.

Ma perché, tuttavia, non pensare di rendere il valore dell’iniziativa economica privata “funzionale” alla realizzazione dell’obiettivo della salute e della integrità psico-fisica del lavoratore? E quali sono in concreto i pericoli alla salute che conseguirebbero ad un prolungamento eccessivo dell’orario normale di attività lavorativa?

È evidente che la risposta a quest’ultima domanda necessita di approfondimenti circa la pluralità delle forme di pericolo o pregiudizio che potrebbero assumere rilevanza giuridica a fini sopra stabiliti. Si potrebbe, ad esempio distinguere, tra “rischi generici” e “rischi specifici”, a seconda della loro maggiore o minore idoneità a tradursi in un danno per il lavoratore.

Avv. Sabrina Caporale

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