Il quadro di principi che ancora governano (o dovrebbero governare) la materia del risarcimento del danno non patrimoniale è stato delineato, come è noto, dalle cosiddette sentenze di San Martino delle sezioni unite civile della cassazione del novembre 2008 (n. 26972 e seguenti).

La principale finalità di quell’intervento giurisprudenziale fu quella di elaborare dei criteri di selezione del danno non patrimoniale risarcibile, sulla scia di quanto già effettuato dalle sentenze gemelle del 2003 (nn. 8827 e 8828), in modo da porre, da un lato, fine ad un certo dilagare di risarcimenti di danni cosiddetti bagatellari, alimentati da una certa giurisprudenza di merito che ammetteva a risarcimento anche pregiudizi non tali da assurgere al rango di danno risarcibile e, dall’altro, a chiarire quale fosse la griglia selettiva grazie alla quale fondare, una volta per tutte, la condizioni di risarcibilità di un danno non patrimoniale.

Ebbene, il criterio di selezione preso in considerazione dalle Sezioni Unite fu, giustamente, quello della lesione di un diritto inviolabile della persona, costituzionalmente protetto, con la conseguenza che fu definitivamente chiarito, se pure ve ne fosse stato bisogno, che nel quadro costituzionale di tutela piena della persona, dovessero essere suscettibili di risarcimento, tanto per citare gli esempi effettuati proprio dalle sezioni unite, oltre al danno biologico (quale lesione del diritto costituzionale alla salute di cui all’art. 32 Cost.), i danni relativi alla perdita o compromissione del rapporto parentale per i casi di morte o grave invalidità del congiunto (lesione dei diritti inviolabili della famiglia di cui agli artt. 2, 29 e 30 Cost.), ed  ancora quelli conseguenti alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, in quanto diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost.

Il danno non patrimoniale come categoria unitaria e il danno alla salute in particolare

Nelle stesse decisioni delle sezioni unite del 2008, alcuni aspetti delle quali sono stati sinteticamente descritti nel paragrafo precedente, viene precisato come il danno non patrimoniale rappresenti una categoria generale, non suscettibile di suddivisione in sottocategorie “variamente etichettate”.

Questo principio dell’unitarietà è ribadito, con sfumature e finalità diverse, in più luoghi di queste sentenze, e così, ad esempio: per sgombrare il campo della necessità/utilità della nozione di “danno esistenziale”, per evitare duplicazioni risarcitorie – liquidando due volte, solo perché qualificato con un termine diverso, uno stesso danno, ma al tempo stesso per garantire integralità del risarcimento, vale a dire un risarcimento che sia corrispondente al pregiudizio effettivamente sofferto in concreto.

Qualche passaggio – tratto da Cass. 26972/2008 –  merita di essere ricordato testualmente, nell’ordine in cui è contenuto nella sentenza stessa: 1) “… nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i possibili pregiudizio non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata”; 2) “… non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie (…) è solo a fini descrittivi che (…) si impiega un nome, parlando di danno biologico (…). In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto) adottate dalle sentenze gemelle del 2003 e recepite dalla sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale”.

Il punto centrale dell’impianto motivazionale della sentenza può comunque essere rinvenuto nel seguente passo: “Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.  E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione”.

Cosa succede dopo le sezioni Unite del 2008?

Unitarietà del danno non patrimoniale e insussistenza di sue sottocategorie, dotate di autonomia concettuale (o “ontologica”, come si legge in molte sentenze della Cassazione) da un lato, ed esigenza di garantire l’integralità del risarcimento, tenendo quindi contro della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno,  rappresentano principi di non sempre agevole utilizzazione quando il giudice si trovi a dover determinare, mediante criteri che non possono che essere equitativi, il “congruo” risarcimento del danno effettivamente subito.

Tale operazione che, come noto, consiste nella cosiddetta personalizzazione del danno, cosicché alla “uniformità di base” del risarcimento possano essere aggiunte le componenti peculiari della singola situazione lesiva, viene realizzata utilizzando le note tabelle, considerate dalla giurisprudenza strumenti idonei a consentire al giudice di dare concretezza alla sua valutazione equitativa, fino a che, addirittura, a quelle milanesi è stata attribuita, dalla stessa Cassazione, “vocazione nazionale”.

Ciò significa che, al di là delle affermazioni delle sezioni unite secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale preclude la possibilità di un autonomo e separato risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenze patite dalla persona, la giurisprudenza della Suprema Corte, talora con maggior esplicitazione, talora con riferimenti che si mantengono “sotto traccia”, finisce per dare rilievo alla considerazione di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto.

Fin qui nulla di particolarmente singolare o problematico.

La questione si complica (forse solo apparentemente, come si vedrà meglio tra poco) se si tiene presente che nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, successivamente alle citate sentenze del novembre 2008 a sezioni unite, non si è assistito soltanto a una maggior o  minor enfasi per le voci “descrittive” dell’unica categoria di danno non patrimoniale, ma talvolta si è giunti ad affermare, con evidente allontanamento dai principi delle decisioni del 2008, una vera e propria autonomia concettuale di alcune voci di danno, in particolare del “danno morale” (e ciò, a ben vedere, anche alla luce, di due interventi normativi, successivi alle sezioni unite del 2008, che hanno dato una “dignità” pressoché autonoma al danno morale , sui quali non è in questa sede possibile soffermarsi).

Non è qui possibile effettuare una ricognizione delle numerose sentenze che, pur con accenti e motivazioni differenti, hanno posto in rilievo la differenza tra danno biologico e danno morale, come pure di quelle che, ugualmente, con percorsi motivazionali differenti, hanno valorizzato il pregiudizio concretamente sofferto, pur senza scomporlo nelle varie sottocategorie di danno, per cui ci si limita a confrontare, esemplificativamente, due recenti sentenze che, sotto i profili anzidetti, appaiono divergenti.

La liquidazione del danno non patrimoniale nel percorso motivazione di due recenti sentenze della Cassazione

Due recenti sentenze, entrambe pubblicate nel corso del 2015, rendono chiara la differenza di impostazione sopra accennata.

L’impostazione maggiormente aderente ai principi dettati dalle sezioni unite del 2008 si rinviene in Cass., 13 agosto 2015, n. 16788 (relatore Rossetti).

Questa sentenza si preoccupa di evidenziare come ciò che conta, è poter controllare, attraverso la possibilità di ripercorrere l’iter logico motivazionale del giudice, se questi, al di là dei “nomi” utilizzati per descrivere i pregiudizi subiti, li abbia seriamente risarciti, in quanto allegati e provati (anche mediante presunzioni) e, al tempo stesso, non abbia risarcito due volte lo stesso danno, magari solo perché qualificato con due “nomi” differenti.

Più chiaramente, secondo questa sentenza, una lombosciatalgia derivante da un illecito non produce plurimi effetti risarcitori, solo perché questi vengano di volta in volta definiti “danno biologico”, “danno morale”, “danno alla vita di relazione” o altro. Ciò in quanto il “polimorfismo” con cui il danno può manifestarsi nulla c’entra con l’unitarietà del danno e con la congruità del suo risarcimento.

Ne deriva, secondo questa impostazione, che pregiudizi identici non possono chiamarsi con nomi diversi ed essere perciò liquidati due volte e, al tempo stesso che, quando si tratta di stabilire il valore del danno patito dalla vittima, il giudice non deve seguire categorie astratte, bensì accertare in concreto cosa e come il danneggiato abbia perduto, e per quanto tempo.

Nel far ciò opererà dapprima una monetizzazione del risarcimento standardizzata (vale a dire quella che è uguale per tutti, in base all’automatismo tabellare, a parità di gravità del danno ed età del danneggiato) e poi provvederà a monetizzare, a mo’ di personalizzazione, le eventuali conseguenze peculiari, vale a dire quelle che non costituiscono una costante per tutti i danneggiati a parità di postumi, ma che in concreto sono state concretamente sofferte dalla vittima nel caso specifico.

***

Differente appare (ma forse solo “appare”) l’impostazione adottata dalla decisione resa in data 9 giugno 2015, n. 11851 (relatore Travaglino), nella quale si insiste sulla “non continenza” del danno morale all’interno del danno biologico sulla base di una serie di indici, sia “operativi” (il fatto che le tabelle milanesi elaborate dopo le sentenze di “San Martino” non abbiamo mai eliminato l’elemento del danno morale come voce della più ampia categoria del danno non patrimoniale), sia normativi (l’emanazione di due successivi D.P.R. – n. 37 e n. 191 del 2009 – entrambi i quali, al loro art. 5, hanno reso manifesta la volontà del legislatore di distinguere tra la “voce” danno biologico e la “voce” danno morale), sia giurisprudenziali (con il rinvio alla sentenza della Cassazione n. 22585/2013, la quale afferma l’autonomia del danno morale sia rispetto al danno biologico sia a quello “dinamico relazionale”).

In particolare, secondo Cassazione n. 11851 del 2015 la sofferenza dell’individuo sarebbe sempre da scindere tra il dolore interiore (appunto il danno morale) e la alterazione della vita quotidiana (il danno biologico, visto anche nella sua componente dinamico relazionale, oggetto di personalizzazione).

Tale ultima considerazione, secondo questa sentenza, troverebbe conferma anche in quanto affermato dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 235 del 2014, in tema di legittimità costituzionale del limite risarcitorio posto dall’art. 139 codice assicurazioni alle cosiddette “micro permanenti”.

Questa sentenza insiste quindi, ripetutamente, sulla dimensione “doppia” del danno non patrimoniale, da un lato come danno alla relazione/proiezione esterna dell’essere, dall’altro come danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza.

Di qui l’esigenza che il giudice valuti ogni volta entrambi gli aspetti di tale sofferenza per poter procedere ad una riparazione che risulti equa e consonante con quanto realmente patito dal soggetto.

Conclusioni

Ebbene, al di là delle differenze terminologiche, delle quali le due sentenze prese a paradigma rappresentano solo un esempio (in quanto molte altre, ciascuna caratterizzata da sfumature differenti, se ne potrebbero analizzare), pare che la disputa sia in realtà più terminologica che sostanziale.

Il primo orientamento riferito, pur prendendo atto di un giustamente definito “polimorfismo” del danno non patrimoniale, ne ribadisce la unitarietà, il che non vuol dire esito risarcitorio riduttivo, in quanto finalità dell’attività valutativa del giudice deve comunque restare il risarcimento del danno, il quale va sempre calcolato tenendo conto delle specificità del caso concreto.

Il secondo orientamento, ma forse più che di vero e proprio orientamento, sarebbe preferibile parlare di “approccio”, pone maggiormente l’accento sulle diverse componenti del danno, al punto quasi da conferire loro – e ciò soprattutto con riferimento al “danno  morale” – autonomia concettuale.

L’esito, per ciò che attiene alla monetizzazione del risarcimento non pare però essere difforme, nel senso che l’attenzione per quanto di peculiare vi è in ogni caso concreto resta fortemente presente in entrambi gli approcci, come peraltro ancor più di recente affermato dalla sentenza n. 16197 del 30 luglio 2015 che, pur evidenziando anch’essa una sorta di autonomia del danno morale, a ben vedere poi incentra l’attività valutativa e la personalizzazione sulle peculiarità del caso concreto, alla luce della “bussola” rappresentata dal fatto che debba essere perseguita la finalità di adeguare le stesse tabelle all’esigenza di assicurare al danneggiato l’integrale risarcimento, tenuto conto delle peculiarità del caso.

Se una differenza può essere individuata tra le due metodologie liquidativo/valutative è che la prima, sebbene imponga comunque al giudice di dar conto dei criteri utilizzati per parametrare il risarcimento al caso concreto, essendo maggiormente svincolata dall’utilizzazione di categorie (o sottocategorie) descrittive, potrebbe forse rendere più complessa sia l’opera di valutazione che la ricostruzione ex post della monetizzazione effettuata dal giudice.

Basti pensare al riferimento a peculiarità del caso concreto quali l’intensità e durata del dolore, la natura e complessità delle cure, le limitazioni nelle opportunità di avere e/o sviluppare amicizie ed affetti, etc., che potrebbero essere tendenzialmente illimitate, a fronte della maggior “comodità” di poter far riferimento ad un elenco più ristretto di categorie nominate (“etichette”, come le definisce autorevole dottrina) al fine di pervenire alla quantificazione dell’integrale risarcimento del danno.

Se però consideriamo che la sofferenza, ove allegata e provata (anche, come noto, in via presuntiva) è pregiudizio che viene risarcito, a prescindere dal fatto che venga espressamente qualificato come morale o meno, ci rendiamo conto che la diatriba cui sembra di assistere dipende più dal modus operandi degli estensori delle sentenze che non dai principi posti alla base del risarcimento del danno non patrimoniale, i quali appaiono  ben saldi.

Probabilmente, più che tali dispute, a preoccupare chi legittimamente ha a cuore l’integralità del risarcimento del danno alla persona, dovrebbero essere i tentativi di costruire un sistema chiuso di risarcimento, all’interno del quale vengano normativamente previsti “tetti” troppo bassi alla personalizzazione, con rischio di frustrazione di un principio che non è tanto e non solo quella dell’integralità del risarcimento del danno (che la stessa Corte costituzionale non ritiene costituzionalmente coperto), quanto quella del risarcimento equo di un diritto, questo sì costituzionalmente protetto, che è quello alla salute di cui all’art. 32 Cost.

 Avv. Leonardo Bugiolacchi

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