Per gli Ermellini, non sempre è d’obbligo ottenere il consenso informato prima di procedere a un intervento terapeutico di urgenza.

Con la sentenza 31628/2018 la Corte di Cassazione, IV sezione penale, ha fatto il punto in merito a consenso informato e urgenza. Nello specifico, per i giudici, di fronte a una situazione di pericolo per l’integrità fisica del paziente, sostengono che il medico ha l’obbligo di procedere alle cure necessarie atte prevenire conseguenze pregiudizievoli o letali.

La vicenda

Nel caso di specie, a due medici in servizio nel giorno del ricovero della paziente poi deceduta, era stato imputato il reato previsto agli artt. 113 (cooperazione nel delitto colposo) e 589 (omicidio colposo) del codice penale.

Ciò in quanto, uno in qualità di medico del Pronto Soccorso e l’altro come medico dello stesso ospedale, avevano provocato la morte della paziente per grave insufficienza respiratoria conseguente a grave infezione tetanica non trattata durante il primo ricovero.

Ebbene, gli imputanti sono stati condannati a 6 mesi di reclusione uno e a 4 mesi l’altro dal Tribunale di Avellino.

La condanna discende dal non aver eseguito gli atti sanitari necessari a intervenire nelle diverse fasi del ricovero e della dimissione della paziente. La donna era giunta in ospedale per diverse ferite da taglio all’addome e ai polsi auto inferte.

Un medico che aveva avuto in cura la paziente al Pronto Soccorso, non aveva però praticato la profilassi antitetanica e antibiotica necessaria per la natura delle ferite, profonde e sporche di terra.

Il secondo medico, invece, non aveva preso parte agli interventi terapeutici. Ciò in quanto erano relativi ad altra branca ospedaliera. Il sanitario si era però attivato per ottenere un consulto psichiatrico per la ricoverata la cui condizione di depressa cronica faceva temere ulteriori atti di autolesionismo. Ebbene quest’ultimo medico è stato accusato di avere firmato la dimissione della paziente anche dopo aver constatato la mancata esecuzione di profilassi antitetanica.

Il Giudice di merito ha stabilito la condanna per entrambi in quanto, per la Corte, avrebbero dovuto praticare la terapia antibiotica e antitetanica. Un atto doveroso secondo la leges artis e i protocolli sanitari e due circolari della Regione Campania.

Ma la difesa dei due camici bianchi aveva sostenuto che, così facendo, avrebbero effettuato un trattamento sanitario di urgenza, in assenza di un consenso da parte della paziente. Dunque, solo basandosi su circolari in materia di natura sotto ordinata.

Il parere della Cassazione

Ebbene, per gli Ermellini, salvare la vita di una paziente prevale su tutto il resto. E questo soprattutto in caso di urgenza e se il paziente non è in grado di esprimere il consenso.

Non solo.

La Cassazione ha rammentato che le sezioni unite avevano già chiarito come “non integra il reato di lesioni personali, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente a un trattamento terapeutico in relazione al quale non sia stato prestato il consenso informato, nel caso in cui questo, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso”.

Alla luce di quanto enunciato, quella del caso di specie è dunque una chiara ipotesi in cui il consenso non è indispensabile.

I medici, inoltre, erano stati condotti in giudizio per altre ragioni. Infatti non avevano sottoposto la donna alla terapia antitetanica. Il reato è stato prescritto e la condanna al risarcimento delle parti civili è stata quindi confermata per queste ragioni.

Come precisa la sentenza “la necessità del consenso informato, così come prospettata dal ricorrente, è del tutto inconferente al caso di specie”.

Ciò in quanto nella vicenda in esame, l’accusa rivolta a entrambi “è di non aver praticato alla persona offesa la necessaria terapia antitetanica, comportamento doveroso che, se attuato, avrebbe evitato l’insorgenza dell’infezione per la quale la donna successivamente moriva”.

Per gli Ermellini la profilassi “avrebbe dovuto essere praticata all’atto del ricovero dal sanitario preposto – a nulla rilevando la circostanza sull’autenticità o meno della prescrizione di un trattamento antitetanico nel referto – una volta accertata la condizione di pessima igiene delle ferite, avrebbe con elevata probabilità logica evitato l’infezione e il conseguente decesso”.

Invece, tutti e due i sanitari hanno omesso di valutare la possibilità dell’infezione tetanica. Infezione che “poteva dirsi assolutamente prevedibile secondo scienza ed esperienza”.

In conclusione, per i giudici, “la responsabilità per colpa del medico ricorrente scaturisce proprio dal fatto che egli disponeva di tutte le informazioni e dei dati clinici sulle condizioni del paziente, ossia dei dati che avrebbero consentito di evidenziare l’omessa somministrazione della terapia necessaria e ciò non di meno non è intervenuto per porre rimedio o per evidenziare la necessità della profilassi in questione”.

 

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