Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente

La vicenda

A seguito di uno scontro frontale, verificatosi in prossimità d’uno svincolo autostradale tra un autobus e un’autovettura, persero la vita tre dei passeggeri a bordo (rispettivamente moglie e due figli del conducente), un altro subì soltanto lesioni personali.

Un primo giudizio, introdotto dalla società proprietaria dell’autobus dinanzi al Tribunale di Arezzo, si era concluso con una sentenza definitiva della Corte d’appello di Firenze, che attribuì al conducente del veicolo una responsabilità dell’80% nella causazione del sinistro, ed il restante 20% al conducente dell’autobus.

Il secondo giudizio fu introdotto nel 2005 dinanzi al Tribunale di Milano dal terzo trasportato, sopravvissuto all’incidente, nonché dal padre e fratello della donna defunta.

In primo grado il Tribunale di Milano attribuì la responsabilità esclusiva del sinistro al conducente e comproprietario del veicolo. Accolse, di conseguenza, le domande attoree nei soli confronti di quest’ultimo e della sua compagnia assicurativa.

In appello, la corte milanese attribuì al conducente dell’autoveicolo, un concorso di colpa dell’80%, al conducente dell’autobus il restante 20%; rigettò la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro proposta dal terzo trasportato, sul presupposto che questi non avesse provato l’entità del reddito percepito al momento dell’infortunio; rigettò altresì le richieste istruttorie formulate dal danneggiato, reputandole “del tutto generiche”; ritenne, infine, corretta la stima del danno biologico patito dal ricorrente, già liquidata dal giudice di primo grado nella somma di 50.000 euro.

Sulla vicenda si sono pronunciati anche i giudici della Terza Sezione Civile della Cassazione (sentenza n. 18056/2019).

In primo luogo è stato chiarito che l’invalidità biologica può scaturire tanto da una lesione fisica, quanto da una lesione psichica.

“L’una e l’altra costituiscono infatti, dal punto di vista giuridico, un ‘danno biologico’. Il c.d. “danno psichico” non è un pregiudizio diverso dal danno biologico: è, più semplicemente, un danno biologico consistente nella alterazione o soppressione delle facoltà mentali. Si tratta dunque d’una categoria descrittiva e non giuridica, così come – ad esempio -, se si parlasse di “danno neurologico” o di “danno cardiovascolare”.

Anche il danno psichico, pertanto, come qualsiasi altra lesione della salute, va accertato in corpore con criteri medico-legali, e va valutato in punti percentuali in base ad un accreditato bareme medico-legale. Ove, poi, una lesione della salute psichica venga a cumularsi con un evento stressogeno quale il lutto, spetterà al giudice di merito stabilire in concreto, se il dolore causato dalla perdita d’un familiare sia o non sia degenerato in una sindrome di rilievo neurologico: accertamento che quest’ultimo dovrà compiere con metodo accurato e scientificamente valido, consistente nel far somministrare al danneggiato adeguati test psicologici; nel farlo sottoporlo a reiterati colloqui con uno specialista psichiatra e così via.

Nel compiere tali operazioni, il giudice di merito ovviamente dovrà astenersi sia dal ritenere che la stima del danno morale causato dalla morte d’un congiunto possa ristorare di per sé anche l’eventuale malattia psichica patita dal superstite; sia all’opposto dall’indulgere a frettolose “panpsichiatrizzazioni” d’ogni moto dell’animo, pervenendo a concludere che qualsiasi turbamento costituisca per ciò solo un danno alla salute

Nella stessa sentenza, i giudici della Terza Sezione hanno altresì sgomberato il campo dalla confusione sul piano giuridico delle varie espressioni, coniate negli anni, dalla troppo fervida fantasia di taluni interpreti, e troppo spesso abusate, quali “danno terminale”, “danno tanatologico”, “danno catastrofale”, “danno esistenziale”.

Queste espressioni – ha affermato – non hanno alcuna dignità scientifica; sono usate in modo polisemico; sono talora anche etimologicamente scorrette (come l’espressione “danno tanatologico”).

La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale.

Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarietà quale concetto giuridico.

Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.

Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sé e non il suo patrimonio.

Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):

  • ha fondamento medico legale;
  • consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità;
  • sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente.

Il secondo, invece:

  • non ha fondamento medico legale;
  • consiste in un moto dell’animo;
  • sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.

Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente.

Il lemma “invalidità”, infatti, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente). L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa. L’espressione “invalidità permanente” designa invece, lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

“L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinché durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea” (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015).

Per risalente convenzione medico-legale, il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni, mai in frazioni di giorni.

Ne deriva che in tanto la vittima di lesioni potrà acquistare il diritto al risarcimento del danno alla salute, in quanto abbia sofferto un danno alla salute medico legalmente apprezzabile, dal momento che per espressa definizione normativa, il danno biologico è solo quello “suscettibile di accertamento medico legale” (così l’art. 138 cod. ass.; conforme è la dottrina e l’ormai pluridecennale giurisprudenza di questa Corte).

Il risarcimento del danno biologico temporaneo

Quanto al danno biologico temporaneo, per potersene predicare l’esistenza sarà necessario che la lesione della salute si sia protratta per un tempo apprezzabile, perché solo un tempo apprezzabile consente quell’”accertabilità medico legale” che costituisce il fondamento del danno biologico temporaneo.

Normalmente tale “lasso apprezzabile di tempo” dovrà essere superiore alle 24 ore, giacché come accennato è il “giorno” l’unità di misura medico legale della invalidità temporanea; ma in astratto non potrebbe escludersi a priori l’apprezzabilità del danno in esame anche per periodi inferiori.

Nell’uno, come nell’altro caso, lo stabilire se la vittima abbia patito un danno biologico “suscettibile di accertamento medico legale” è un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, e non sindacabile in sede di legittimità.

La consapevolezza di dover morire

La vittima di lesioni che, a causa di esse, deceda dopo una sopravvivenza quodam tempore, può poi patire un pregiudizio non patrimoniale di tipo diverso: la sofferenza provocata dalla consapevolezza di dovere morire.

Questa sofferenza potrà essere multiforme, e potrà consistere nel provare – ad esempio – la paura della morte; l’agonia provocata dalle lesioni; il dispiacere di lasciar sole le persone care; la disperazione per dover abbandonare le gioie della vita; il tormento di non sapere chi si prenderà cura dei propri familiari, e così via, secondo le purtroppo infinite combinazioni di dolore che il destino può riservare al genere umano.

L’esistenza stessa, e non la risarcibilità, del pregiudizio in esame, al contrario del danno alla salute, presuppone che la vittima sia cosciente.

Se la vittima non sia consapevole della fine imminente, infatti, non è nemmeno concepibile che possa prefigurarsela, e addolorarsi per essa.

Tuttavia, anche una sopravvivenza di pochi minuti può consentire alla vittima di percepire la propria fine imminente mentre, al contrario, una lunga sopravvivenza in totale stato di incoscienza non consentirebbe di affermare che la vittima abbia avuto consapevolezza della propria morte.

In conclusione, i giudici della Suprema Corte hanno affermato che:

  • le espressioni “danno terminale”, “danno tanatologico”, “danno catastrofale” non corrispondono ad alcuna categoria giuridica, ma possono avere al massimo un valore descrittivo, e neanche preciso;
  • il danno da invalidità temporanea patito da chi sopravviva quodam tempore ad una lesione personale mortale è un danno biologico, da accertare con gli ordinari criteri della medicina legale. Di norma, esso sarà dovuto se la sopravvivenza supera le 24 ore, ed andrà comunque liquidato avendo riguardo alle specificità del caso concreto;
  • la sofferenza patita da chi, cosciente e consapevole, percepisca la morte imminente, è un danno non patrimoniale, da accertare con gli ordinari mezzi di prova, e da liquidare in via equitativa avendo riguardo alle specificità del caso concreto.

La redazione giuridica

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