Relazioni disfunzionali: le condotte di dipendenza, in tutte le loro manifestazioni comportamentali, possono essere definite come il tentativo del soggetto di stabilire un equilibrio

La dipendenza nelle relazioni adulte è collocabile lungo un continuum che va da un estremo caratterizzato dalla “ricerca disperata dell’altro”, indispensabile in quanto unico regolatore dei propri stati interni, alla “fuga atterrita dall’altro”, considerato, al contrario, come minaccia all’integrità del proprio Io (relazioni disfunzionali).
Tale costrutto, definito da Bowlby attaccamento, si sviluppa in relazione alla fiducia sperimentata nel contesto delle relazioni primarie, specificatamente, circa la disponibilità delle figure accudenti sperimentata dal bambino. Un bambino, con attaccamento cosiddetto sicuro avrà sperimentato caregivers che capaci di rendersi disponibili successivamente ai suoi slanci di autonomia; un bambino che, al contrario, non ha avuto la possibilità di esperire la propria indipendenza con la sicurezza di poter poi fare ritorno ad una base sicura, svilupperà un attaccamento insicuro.
Le cosiddette personalità dipendenti vengono solitamente associate ad un attaccamento insicuro ansioso, in riferimento alla verosimile ansia sperimentata in età precoce in un contesto relazionale incerto. I due fenomeni di attaccamento e dipendenza non sono del tutto sovrapponibili, riferendoci al primo come comportamento teso alla ricerca di sicurezza e prossimità con una figura preferenziale – esperita come più forte e competente – e al secondo come comportamento derivato dall’attaccamento non necessariamente diretto ad uno specifico soggetto, che si esprime con condotte generalizzate mirate ad evocare guida e approvazione.
La neurofisiologia ha contribuito, negli ultimi anni, a illustrare i sottostanti della dipendenza relazionale – oltre che tossicomanica – “le esperienze precoci creano dipendenza non solo perché sono psicologicamente salienti, ma anche a causa dei loro concomitanti neurochimici.” (Mitchell, 2000); i circuiti neuronali mediati dalle endorfine, infatti, si instaurano nel cervello in età precoce e all’interno del contesto delle relazioni oggettuali1, le esperienze affettive intense, sia positive che negative, sono accompagnate dal rilascio di suddetto neurotrasmettitore.
La dipendenza affettiva, perciò, oltre che psicologicamente determinata si connota anche come una dipendenza neurochimica. Le condotte di dipendenza, in tutte le loro manifestazioni comportamentali, possono essere definite come il tentativo del soggetto di stabilire un equilibrio, di implementare una coerenza interna attraverso un apporto esterno, poiché deboli o inesistenti risultano le risorse a propria disposizione.
Alla stregua delle dipendenze tossicomaniche, quella relazionale, è caratterizzata da segni e sintomi tipici, quali:
• Piacere derivante dall’oggetto di dipendenza;
• Tolleranza: investimento sempre maggiore di tempo in presenza dell’oggetto di dipendenza e parallelo disinvestimento in tutte le altre attività;
• Astinenza: affettività marcatamente negativa, anche con segni quali depressione, ansia e panico, in assenza dell’oggetto di dipendenza;
• Perdita di controllo: incapacità del soggetto di riflettere e agire in maniera lucida riguardo la relazione, alternata a momenti ragionamento logico nel quale si esperiscono sensi di colpa e vergogna.
Il pattern di pensiero – stabile e difficilmente modificabile – che sottende la dipendenza patologica vortica attorno idealizzazione dell’altro e svalutazione di sé, con conseguenti angosce di abbandono e di perdita, anche in assenza di indizi reali, che potrebbero condurre allo scompenso emotivo e psicologico del soggetto.
I comportamenti e vissuti che ne derivano: mortificazione delle proprie necessità in favore di quelle dell’altro; ricerca spasmodica di approvazione da parte dell’altro, che sfocia in accomodamento ed eclissi dell’Io del soggetto; forti sensi di colpa e vergogna rispetto le decisioni da prendere, quindi incapacità di autodeterminarsi; evitamento della solitudine e del rifiuto; incapacità di difendere i propri spazi e i propri confini.
Sandra Filippini (2005) parla di “perversione relazionale” riferendosi a quelle relazioni che si sviluppano sul terreno narcisistico di personalità, nelle quali la manipolazione e l’abuso psicologico dell’altra persona sono funzionali al mantenimento dell’equilibrio narcisistico e, quindi, al perpetrarsi del circolo di dipendenza maltrattato/maltrattante; nutrire la dipendenza dell’altro porta con sé benefici connessi alla detenzione del potere e, al contempo, allontana l’angoscia di essere abbandonati e il pericolo di distruzione del rapporto.
Sovente le personalità dipendenti vengono risucchiate in veri e propri tunnel relazionali profondi, dai quali tirarsi fuori risulta estremamente difficile e doloroso, esercitando, l’altro, abuso psicologico e manipolazione, restano incastrati in un gioco che li mortifica e che annienta il loro proprio Io.
Le dinamiche relazionali tipiche vedono le personalità dipendenti oppresse da insulti, mortificazioni, denigrazioni, colpevolizzazione, gelosie ossessive immotivate tanto da sfiorare, in certi casi, una franca psicosi; gli scambi interazionali divengono rigidi e inautentici, dovendo mantenere costantemente un controllo sul proprio comportamento al fine di evitare che il partner manipolatore sfoderi il suo armamentario di strategie che, inevitabilmente, finiranno per soggiogare il soggetto dipendente ancora una volta, anelando un riconoscimento irraggiungibile.
 
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