Anestesista condannato per violenza sessuale, anche l’ospedale è tenuto al risarcimento del danno subito dalla paziente mentre il medico era in servizio.

Anestesista condannato per violenza sessuale: per la Cassazione anche la struttura sanitaria è tenuta al pagamento dei danni subiti dalla vittima. Lo stabilisce con la sentenza n. 22058 del 22 settembre 2017.
Secondo gli Ermellini, infatti, la responsabilità dell’ospedale dipende dal fatto che il medico anestesista ha commesso la violenza sessuale nell’esercizio delle sue funzioni.

Il caso

L’ anestesista condannato per violenza sessuale “aggravata” (art.609 bis c.p.) aveva abusato di una sua parente. La donna era ricoverata presso l’ospedale in cui il medico era in servizio per un intervento chirurgico per un tunnel carpale.
Dopo essere stata anestetizzata dal medico, la donna “era stata denudata parzialmente, toccata nelle sue parti intime e fotografata più volte in pose erotiche nel mentre si trovava in stato di totale incoscienza conseguente al trattamento anestetico subito”.

I primi due gradi di giudizio

Dopo la condanna penale, la vittima aveva agito in giudizio nei confronti del medico e dell’ospedale.
Il Tribunale di I grado aveva accolto la domanda risarcitoria, condannando sia il medico che l’ospedale al risarcimento del danno, nella misura di Euro 25.000.
La sentenza era stata, poi, confermata in grado di appello, la quale aveva ribadito la responsabilità dell’ospedale.
La Corte d’Appello aveva sottolineato che la violenza del medico era avvenuta all’interno dell’ospedale, “in orario di servizio ed addirittura durante lo svolgimento dello stesso, nell’adempimento di specifiche mansioni di medico anestesista, dopo aver narcotizzato la vittima in vista dell’intervento chirurgico”.
Secondo la Corte, dunque, il fatto “rientrava in pieno nell’ambito del rapporto lavorativo intercorso, poiché sussisteva un evidente collegamento tra l’azione criminosa e l’incarico affidato al medico dalla struttura sanitaria”.

Il ricorso in Cassazione e sentenza

L’ospedale era quindi ricorso in Cassazione. La Corte d’appello, sostiene il ricorrente, non avrebbe dato corretta applicazione all’art. 2049 c.c., perché la violenza sessuale rappresenta “la massima espressione di un fine strettamente personale ed egoistico” ed “il ruolo rivestito dal dott. A. all’interno della struttura ospedaliera costituiva solo l’occasione naturale per compiere il fatto”.
Per la Cassazione, invece, la Corte di appello aveva correttamente applicato l’art. 2049 c.c. Secondo gli Ermellini, infatti, è sufficiente che le funzioni affidate al dipendente abbiano determinato “una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purché sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro”.
Evidenziava la Corte di Cassazione, in particolare, che la Corte d’appello aveva, giustamente, “riconosciuto che l’episodio criminoso in tanto si era potuto verificare in quanto il medico stava proprio svolgendo il suo lavoro di anestesista all’interno dell’ospedale, avendo per tale ragione a disposizione sale operatorie, medicamenti specifici e tutto l’apparato connesso alla sua attività all’interno della struttura”.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dell’ospedale e ha confermato integralmente la sentenza impugnata, condannando l’ospedale anche al pagamento delle spese processuali.
 
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