A seguito dell’assunzione di un farmaco di cui era allergica, una donna veniva ricoverata presso un ospedale del modenese per poi essere dimessa la mattina successiva

A causa della persistenza di difficoltà respiratorie la paziente veniva nuovamente ricoverata dapprima presso un’altra struttura e poi di nuovo presso il predetto ospedale. Al suo arrivo i medici diagnosticavano una insufficienza respiratoria acuta ipossica ipercapnica e, durante il ricovero, la stessa contraeva una grave infezione nosocomiale, cosicchè decedeva dopo venti giorni.

I congiunti della vittima hanno presentato ricorso al Tribunale di Modena contro l’azienda ospedaliera al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti, previo riconoscimento della responsabilità nella causazione del decesso.

Il 15 marzo 2019 il Tribunale si è pronunciato sulla vicenda.

La domanda dei familiari della vittima è stata accolta: il giudice di primo grado, tenuto conto della situazione in cui versava la danneggiata e l’evento morte, avvenuto a distanza di venti giorni dal primo ricovero in Pronto Soccorso, ha quantificato il danno biologico terminale in 40.000 euro, da corrispondere ai predetti secondo le rispettive quote ereditarie.

Il danno non patrimoniale è stato, invece, liquidato nella somma di 166.000 euro per ciascuno degli eredi.

Al tal fine, sono stati applicati i valori medi di riferimento contenuti nelle tabelle milanesi, non avendo i parenti fornito prova sufficiente a dimostrazione “del massimo sconvolgimento della propria vita in conseguenza della perdita del rapporto parentale”.

La ricostruzione della vicenda

La CTU medico-legale espletata in giudizio era stata molto chiara nell’affermare che: “il quadro clinico di insufficienza respiratoria sottovalutato in occasione del primo ricovero presso il pronto soccorso avrebbe richiesto ulteriori indagini diagnostiche per meglio definire la patogenesi e instaurare un idoneo trattamento terapeutico, tale da poter evitare l’evolversi del quadro clinico l’insufficienza cardiaca accertato quasi dopo due settimane che ha portato la paziente all’exitus. In tal senso si configura un profilo di colpa professionale omissiva”.

La carente diligenza sia della struttura che dei suoi sanitari è stata ricondotta anche alle infezioni nosocomiali contratte dalla paziente, in particolare nel secondo ricovero; circostanza non contestata e accertata dal CTU, nel cui elaborato si legge testualmente: “…probabilmente le infezioni ospedaliere a cui è andata incontro hanno con ogni probabilità contribuito a peggiorare ulteriormente il quadro clinico…le chance di sopravvivenza all’atto del secondo ricovero si sono ulteriormente ristrette sia per la gravità del quadro al momento del ricovero, sia per il sopraggiungere di infezioni nosocomiali che hanno aggravato il quadro clinico”.

Quanto invece al nesso causale il perito ha dichiarato che “in considerazione del decorso clinico e della natura della patologia è “più probabile che non” che potesse essere evitato il decesso della paziente verificatosi dopo circa tre settimane”.

Al riguardo, la struttura convenuta in giudizio non ha fornito alcuna prova (contraria) a dimostrazione che la sua prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti subiti dalla paziente siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

Di qui la condanna in primo grado.

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