Il danno alla professionalità, derivante dal demansionamento, può essere riconosciuto soltanto in presenza di adeguata allegazione e prova da parte del lavoratore di tutte le circostanze del caso concreto

La vicenda

Nel 2013 la Corte d’Appello di Bologna, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva integralmente  rigettato le domande proposte da una dipendente della Provincia di Reggio Emilia, al risarcimento dei danni per mobbing e demansionamento a causa dei vari periodi di utilizzazione in mansioni deteriori rispetto a quelle di inquadramento o di totale svuotamento delle sue attribuzioni lavorative.
La Corte territoriale aveva ritenuto del tutto insussistenti gli estremi sia del mobbing, sotto il profilo dell’unicità di progetto illecito e di un intento persecutorio, sia del demansionamento.
La vicenda è giunta sino ai giudici della Cassazione che hanno respinto il ricorso della dipendente, fornendo importanti chiarimenti in materia di onere probatorio spettante al lavoratore e al datore di lavoro in caso di demansionamento.

Il demansionamento nella giurisprudenza di legittimità

Secondo l’assetto giuridico processuale risalente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 5454/2009, “in tema di demansionamento e relativo onere probatorio, il lavoratore può reagire al potere direttivo che assume esercitato illegittimamente prospettando circostanze di fatto volte a dare fondamento alla denuncia e, quindi, con un onere di allegazione di elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio, mentre il datore di lavoro, convenuto in giudizio, è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda (art. 416 c.p.c.) e può allegarne altri, indicativi, per converso, del legittimo esercizio del potere direttivo”.
Nel caso in esame, onere primario della ricorrente era quello di allegare puntualmente e chiaramente l’assetto dei propri incarichi nei corrispondenti periodi in contestazione rispetto all’originario inquadramento.

La prova del danno da dequalificazione professionale

Al riguardo è anche interessante ricordare che “il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita – lesione che, per l’appunto, si profila idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso – è tenuto ad indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di aver subito ed a fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturito e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione, anche eventualmente equitativa.
Il danno alla professionalità, potendo esso consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio per perdita di chances, ossia di ulteriori possibilità di guadagno, può essere riconosciuto se non se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo; analogamente, della perdita di chances, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. (Sez. Un. 24/3/2006 n. 6572).
In altre parole, è necessaria la deduzione, da parte del lavoratore, di specifici pregiudizi, non essendo sufficiente la generica prospettazione – di impoverimento professionale o mancata conoscenza di strumenti tecnologici o informatici, ovvero blocco nello sviluppo delle cognizioni professionali oppure alla “conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione” nonché alla “frustrazione di ragionevoli aspettative di progressione professionale”. (Cass 17163/16)

La redazione giuridica

 
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