E’ nullo il licenziamento intimato alla dipendente anche se il datore di lavoro è ignaro del suo stato di gravidanza. Lo ha ribadito il Tribunale capitolino con la sentenza n. 1035/2019

Dall’ottobre del 2015 lavorava come cassiera in un esercizio commerciale, dapprima senza contratto e, soltanto in seguito, formalmente regolarizzata, con periodo di prova di 180 giorni.
Svolgeva attività lavorativa sei giorni a settimana per complessivo 60 ore, dalle ore 10.00 alle 20.00 di tutti i giorni, percependo uno stipendio di 1160,00 euro al mese.
Il rapporto di lavoro era durato fino al 2.03.2016, data nella quale, avendo il suo datore di lavoro saputo che era in incinta, l’aveva licenziata col pretesto del mancato superamento del periodo di prova.
Impugnato il provvedimento di licenziamento, dinanzi al Tribunale di Roma, la lavoratrice chiedeva di accertare la natura subordinata del rapporto intercorso tra lei e la società convenuta, di accertare la nullità del patto di prova e di dichiarare la nullità e/o illegittimità del licenziamento per carenza di giusta causa o giustificato motivo ed infine di condannare la predetta società, alla reintegra sul posto di lavoro.

Il processo di primo grado

L’esistenza di un rapporto di lavoro caratterizzato dalla subordinazione risultava evidente sia dalle prove testimoniali che da quelle documentali.
Per quel che concerne il licenziamento la Corte di Cassazione ha già chiarito che “Il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza, anche nel caso di inconsapevolezza del datore di lavoro – non avendo questi ricevuto un certificato medico attestante la situazione personale della dipendente – costituisce un recesso “contra legem” (Cass. 5749/2008).
Ebbene, dagli atti di causa era emerso che tale certificato medico era stato notificato dalla ricorrente a mezzo PEC alla società convenuta, il giorno immediatamente successivo al licenziamento.
Per il Tribunale di Roma, doveva pertanto, dichiararsi nullo il provvedimento espulsivo, con conseguente reintegra della lavoratrice e condanna della società al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento (euro 1.500 netti) per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo di altre attività lavorative.
In ogni caso – continuava il giudicante – la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali delle mensilità di retribuzione maturate in seguito all’effettiva cessazione del rapporto di lavoro, ai sensi dell’art. 2 comma 2 D.lgs. 23/2015.

La redazione giuridica

 
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