Il medico che effettua un intervento in equipe non può sottrarsi alla responsabilità per un danno al paziente provocato da un altro sanitario.

Lo ribadisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50038/2017. La Suprema Corte ha specificato nuovamente cosa comporti, dal punto di vista della responsabilità professionale, la cooperazione tra più sanitari.
Secondo la Suprema Corte, “le condotte dei singoli sanitari si inseriscono tutte nella medesima area di rischio“.

Il fatto

A causa di una trasfusione di sangue incompatibile si è verificato il decesso di un paziente.
Per la Corte d’appello, l’intera l’equipe andava condannata per omicidio colposo, perché “le condotte dei singoli sanitari si inseriscono tutte nella medesima area di rischio”.
Il rischio riconducibile a ciascuna delle condotte non è mai rischio nuovo ma è sempre il medesimo, tipicamente evolutosi nei successivi passaggi verso l’evento già in origine prevedibile“, si legge nella sentenza.

La sentenza della Cassazione

La Corte di Cassazione ha condiviso la decisione della Corte di Appello. Nel caso di specie, per due sanitari il reato si è estinto per prescrizione. I ricorsi degli altri due sono stati invece dichiarati completamente inammissibili.
Secondo la Corte, in particolare, anche se il comportamento colposo è tenuto da un altro sanitario, il medico che effettua un intervento in equipe non può invocare il principio di affidamento.
Ciò, anche se le singole attività non sono contestuali. Ad ognuno è chiesto il rispetto dei canoni di diligenza e prudenza richiesti dalle mansioni specificamente svolte.
Ma non basta: ogni medico deve osservare gli obblighi che derivano dalla convergenza di tutte le attività svolte dal gruppo verso l’unico e comune fine.
La responsabilità, infatti, per i giudici “persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità“.
 
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