Per un intervento ritardato che aveva costretto il paziente in sedia a rotelle, un ospedale è stato condannato a risarcire 670mila euro

Gli ingredienti per il “perfetto” caso di malasanità c’erano, purtroppo, tutti. La diagnosi sbagliata, il mancato trasferimento nel reparto di neurochirurgia e, infine, l’intervento ritardato, hanno concorso a far sì che il paziente della vicenda in questione si ritrovasse a vivere per sempre in sedia a rotelle. Per tale ragione, il Tribunale di Milano ha condannato l’azienda ospedaliera “G. Salvini” di Rho a un maxi risarcimento, pari a 670mila euro, nei confronti dell’uomo.
I fatti risalgono al 2009, quando la vita Francesco M., originario di Lamezia Terme, 44enne all’epoca dei fatti, è radicalmente cambiata. L’uomo si era recato in ospedale per dei fortissimi dolori alle gambe, e subito la diagnosi – rivelatasi poi errata – era stata di lombosciatalgia e ipostenia degli arti inferiori. Sottoposto a una Tac, questa aveva subito evidenziato importanti complicazioni a livello della colonna vertebrale. Il giorno prima dell’intervento chirurgico, l’uomo era stato portato a Legnano per un consulto, che aveva rivelato la reale origine dei dolori: si trattava infatti di una grave condizione neurologica dovuta a disfunzionalità delle radici nervose lombardi e sacrali, all’interno del canale vertebrale, denominata “sindrome della cauda equina”.
A causa di una carenza di posti letto a Legnano, l’uomo è stato rimandato all’Ospedale di Rho. Qui l’intervento è stato rimandato per diversi giorni, quando – invece – in casi come questi l’interventi deve essere effettuato entro 24 ore dalla diagnosi. Dopo aver effettuato l’intervento ritardato ormai di molti giorni, la diagnosi per l’uomo è stata di “paraparesi in esiti di ernia discale”, ovvero una condanna a vita a vivere in sedia a rotelle.
“Le linee guida dell’Istituto superiore di Sanità – ha dichiarato l’avvocato Bruno Rondanini, che ha difeso Francesco M. grazie anche alle consulenze del medico legale Roberto Messina e del neurochirurgo Luciano Arnaboldi – prevedono che la “sindrome da cauda equina” da ernia del disco intravertebrale presenti un’indicazione assoluta all’intervento da eseguire entro 24 ore e non oltre le 48 ore all’insorgenza dei sintomi. In questo caso si sono attesi ben 14 giorni”. Un intervento ritardato senza una ragione valida e in una situazione di gravità notevole, come quella del quadro clinico presentato dal paziente.
Il giudice, dunque, non ha potuto fare altro che riconoscere la responsabilità dei medici, condannando l’azienda ospedaliera “G. Salvini” al pagamento di un maxi indennizzo pari a 670mila euro da versare all’uomo, alla convivente e ai figli.
Da rilevare che la sentenza in questione è la più elevata finora emessa nel nostro paese per casi di sindrome di cauda equina.
L’avvocato che ha difeso l’uomo, la cui salute è ormai irrimediabilmente compromessa a causa dell’intervento ritardato, ha annunciato che ricorrerà in appello. “Il giudice – ha spiegato l’avvocato Rondanini – ha stabilito che comunque, anche se fosse stato eseguito l’intervento nelle 48 ore prescritte dalle linee guida, il paziente avrebbe rischiato di rimanere paralizzato”.
L’avvocato dell’uomo ha poi concluso affermando che c’è una sentenza della Corte di Cassazione che detta “come l’intervento eseguito oltre le 48 ore dal ricovero nega l’accesso a quella elevata probabilità di guarigione del tutto esente da postumi che in caso di intervento tempestivo l’uomo avrebbe avuto. Inoltre nei confronti dei figli, alcuni dei quali sono ancora minorenni, il giudice ha liquidato una somma irrisoria”.
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