Undici cani erano costretti in uno spazio angusto e in condizioni igienico sanitarie inadeguate. Custode condannato per maltrattamento di animali

Sei mesi di reclusione per il reato di maltrattamento di animali, disciplinato dall’art. 544-ter del codice penale. E’ la pena inflitta a un uomo a cui era stata affidata la custodia di 11 cani, di varie razze.

Gli animali, secondo quanto appurato dalle indagini, venivano tenuti in una gabbia di dimensioni anguste. Peraltro le condizioni igienico sanitarie erano risultate gravemente inadeguate, tanto che alcuni di essi avevano contratto infezioni e riportato lesioni.

A fronte della condanna da parte dei giudici di merito, il ‘custode’ aveva presentato ricorso per cassazione. L’imputato lamentava, in particolare, la mancata esplicitazione, in sede d’appello, dell’iter logico seguito per configurare la sua responsabilità penale, se non in modo apparente.

La Suprema Corte, con sentenza n. 16042/2018 ha tuttavia respinto le argomentazioni del ricorrente, ritenendole infondate. Gli Ermellini, in particolare, hanno evidenziato l’indeterminatezza delle contestazioni mosse dal soggetto a fronte di una motivazione del giudice di secondo grado tutt’altro che apparente.

La Corte territoriale aveva valutato le risultanze istruttorie da cui emergeva la configurabilità dell’elemento oggettivo del reato. Inoltre, aveva tenuto conto della sussistenza dell’elemento psicologico dell’illecito, ricondotto alla volontarietà e consapevolezza della condotta.

Al contrario, secondo i Giudici del Palazzaccio, era il motivo articolato dalla difesa a risultare apparente.

Le doglianze dell’imputato omettevano, infatti,  di assolvere la tipica funzione di una critica ragionata della sentenza oggetto di ricorso. Di qui la manifesta carenza di una censura di legittimità che necessariamente conduceva all’inammissibilità del ricorso.

Per la Cassazione, la motivazione è qualificabile come apparente, e quindi inesistente, se sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali. O ancora se si avvalga di argomentazioni di puro genere, o di asserzioni apodittiche, o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa. In altri termini, sono privi di motivazione i casi in cui il ragionamento del giudice a fondamento della decisione adottata sia fittizio.

Nel caso esaminato, la motivazione sarebbe stata apparente qualora il provvedimento non avesse contenuto la valutazione critica e argomentata del giudice sugli elementi probatori acquisiti.

La sentenza impugnata, invece, non presentava tali caratteristiche , ma dimostrava espressamente come l’uomo avesse consapevolmente mantenuto gli animali in una condizione precaria e difficoltosa.

 

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