Ai fini della configurabilità del mobbing in ambito lavorativo l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di aver subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì dell’intento persecutorio che li unifica

La Corte di Appello di Torino, con propria sentenza, aveva accolto la domanda di un lavoratore subordinato, annullando la sanzione disciplinare a lui inflitta e, condannando la società sua datrice di lavoro a restituire le somme trattenute all’appellante in virtù di detta sanzione. Rigettava, però, le ulteriori richieste del ricorrente, giudicate non provate e concernenti il preteso mobbing in ambito lavorativo posto in essere ai suoi danni da parte del datore.

La decisione della Cassazione

Quanto alla configurazione del mobbing in ambiente lavorativo, secondo il ricorrente, i giudici di merito avevano erroneamente e/o illegittimamente sminuito la portata di tutte quelle circostanze emerse dall’istruttoria, idonee a configurare la fattispecie contestata.

Si trattava, nella specie, di continui mutamenti dell’orario di lavoro, ritardati e anche mancati pagamenti di alcuni stipendi, mancata consegna di numerose buste paga, sorveglianza indebita sul posto di lavoro, applicazione di sanzioni disciplinari pretestuose, comportamenti vessatori da parte dell’amministratore della società e della figlia alla presenza di dipendenti e clienti, anche nell’assegnazione delle mansioni da svolgere.

La sistematicità di tali condotte, verosimilmente vessatorie, attuate nel tempo avrebbero avuto finalità persecutoria e finalizzate ad ottenere le dimissioni del dipendente non gradito. Non soltanto, ma le stesse condotte avrebbero provocato in quest’ultimo, un ulteriore pregiudizio psicofisico, da lui lamentato, sebbene non riscontrato in giudizio, a causa della mancata ammissione di apposita consulenza tecnica.

In verità, i giudici della Cassazione hanno accolto positivamente le argomentazioni addotte in motivazione dalla Corte territoriale che ha escluso il preteso mobbing, per cui occorreva la dimostrazione di una connessione teleologica delle varie azioni o condotte asseritamente lesive, poste in essere da parte datoriale con finalità vessatorie e persecutorie in danno del lavoratore, che in quanto attore ne era probatoriamente onerato.

Dovevano invece, ritenersi condivisibili le argomentazioni operate dal primo giudicante, secondo cui le azioni poste in essere dal datore di lavoro nei confronti del fisioterapista sarebbero state determinate dall’intenzione di assegnare a quest’ultimo, mansioni compatibili con le sue condizioni di salute.

Quanto, poi, alla modifica dell’orario di lavoro, la Corte di merito aveva accertato che si trattava di un solo episodio, risalente nel tempo e peraltro, irrilevante, non sussistendo i motivi ostativi alla legittima facoltà del datore di lavoro di operare unilateralmente modifiche.

Anche in merito alle asserite offese e ingiurie ricevute, la Corte d’Appello ne aveva rilevato la totale assenza di prova.

E cosi le reiterate contestazioni disciplinari trovavano giustificazione nei comportamenti “indisciplinati del ricorrente.

La decisione non può peraltro, neppure dirsi contraria al principio (v. Cass. lav. n. 26684 del 10/11/2017), secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicchè la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti, la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Del tutto corretto, anche sotto il profilo sostanziale, risultava la decisione impugnata, perfettamente aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo cui per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Il mobbing

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009. Conformi Cass. lav. n. 898 del 17/01/2014. In senso analogo, Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014.

E ancora, costituisce mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni – di vario tipo ed entità – al dipendente medesimo. Più recentemente, nei sensi secondo i quali è elemento costitutivo del mobbing, unitamente agli altri occorrenti, anche quello soggettivo, connotato dall’intento persecutorio, cfr. ancora Cass. lav., sentenza n. 9380 del 02/11/2016 – 12/04/2017, nonché Sez. 6 – L, ordinanza n. 14485 depositata il 9/6/2017).

È per tali ragioni che la Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore in favore del datore di lavoro.

Sabrina Caporale

 

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