Se il mobbing non viene riconosciuto, è possibile per il lavoratore ottenere comunque un risarcimento? Ecco il parere della Corte di Cassazione nel merito.

Cosa accade in caso di mobbing non riconosciuto a un lavoratore? Il datore di lavoro può essere comunque condannato a risarcirlo?

A queste domande ha risposto un’ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 3871/2018. Con tale pronuncia, è stato stabilito che anche se vengono escluse le condotte persecutorie, quindi in caso di mobbing non riconosciuto, il datore di lavoro può essere condannato a risarcire il dipendente.

Nel caso di specie preso in esame dai giudici, la Corte d’Appello di Bologna ha respinto l’appello del lavoratore contro la pronuncia del tribunale. Questo aveva rigettato la domanda proposta nei confronti dell’Asl datrice di lavoro.

Tale domanda era volta ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa della condotta vessatoria protrattasi sino al suo pensionamento.

Per la Corte territoriale, l’appellante aveva posto a fondamento della domanda risarcitoria non il semplice demansionamento, bensì il mobbing.

Tuttavia, non aveva fornito la prova dell’intento persecutorio. Pertanto, era irrilevante stabilire se fosse integrato o meno il demansionamento.

L’uomo ha quindi fatto ricorso in Cassazione. In particolare, ha lamentato che il giudice di merito, sebbene si trattasse di un caso di mobbing non riconosciuto, era comunque tenuto ad accertare se i comportamenti denunciati potessero essere fonte di responsabilità per il datore di lavoro.

Per gli Ermellini, sul punto, l’uomo aveva ragione.

Infatti, il giudice d’appello, pur qualificando correttamente la domanda e altrettanto correttamente escludendo il mobbing, ha commesso un errore.

E lo ha fatto nel ritenere “che per ciò solo dovesse essere escluso il suo potere/dovere di pronunciare sul denunciato demansionamento e sui danni asseritamente derivati dall’assegnazione a mansioni inferiori”.

Come già affermato in passato dalla Cassazione, “nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di natura asseritamente vessatoria il giudice del merito, pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, seppure non accomunati dal fine persecutorio, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

Pertanto, la sentenza è stata cassata e la parola passa ora al giudice del rinvio.

 

 

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