Cosa accade a un lavoratore che, subendo straining, quindi un mobbing in cui non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, decida di agire in giudizio per ottenere un risarcimento? Ecco il parere della Cassazione.

Sebbene sia meno noto, lo straining è una forma attenuata di mobbing, e anche piuttosto diffusa. La sua caratteristica principale è che in esso non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3977 del 19 febbraio 2018, ha fatto il punto a riguardo con delle interessanti precisazioni.

Protagonista della vicenda è una impiegata di una scuola. La donna aveva agito in giudizio nei confronti del Ministero dell’Istruzione. L’obiettivo era ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito di alcune condotte vessatorie che aveva subito.

Nello specifico, la donna (dichiarata inidonea all’insegnamento), era stata assegnata alla segreteria di una scuola.

Tuttavia, dopo aver rappresentato al dirigente scolastico “che occorreva ulteriore personale per l’espletamento dei servizi amministrativi”, era entrata in conflitto con la dirigenza scolastica stessa.

Il dirigente scolastico avrebbe risposto alle rimostranze dell’impiegata con delle ritorsioni. Prima “sottraendole gli strumenti di lavoro”. Poi, “attribuendole mansioni didattiche, sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l’accertata inidoneità”.

Infine, “privandola, infine, di ogni mansione e lasciandola totalmente inattiva”.

Tutti comportamenti che, secondo la Corte d’appello, andavano a integrare lo straining. Vale a dire, lo stress forzato inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con l’obiettivo di discriminarla.

Il giudice d’appello, dunque, aveva accolto la domanda risarcitoria della donna. Era infatti ritenuto provato il nesso di causalità tra le condotte denunciate e il danno subito.

Ritenendo la decisione ingiusta, il Ministero dell’Istruzione ha fatto ricorso in Cassazione.

Secondo il Ministero, lo straining non costituirebbe una categoria giuridica. E questo dal momento che “anche in medicina legale la sua configurabilità è controversa”.

Per il ricorrente, dunque, “una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori”, non vi era spazio per accogliere la domanda risarcitoria.

Il ricorrente ha poi evidenziato che la Corte d’appello, nell’accogliere la domanda della segretaria, non avrebbe dato corretta applicazione alle norme dettate dal codice civile in tema di risarcimento danni e onere della prova.

E questo poiché la stessa, “in presenza di una categoria sconosciuta alla dottrina e dalla giurisprudenza”, avrebbe “quantomeno dovuto fornire una giustificazione della scelta di dare rilevanza giuridica allo straining”.

La Cassazione, tuttavia, ha ritenuto infondato il ricorso del Ministero.

Secondo i giudici, lo straining è “una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie”.

Ne consegue che le azioni che lo integrano, laddove “si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c.”.

Ma non è tutto. La Corte ha sottolineato come debba darsi un’interpretazione estensiva all’art. 2087 c.c., il quale non si applica solo al campo della “prevenzione antinfortunistica in senso stretto”.

Ma, anzi, è volto anche a “impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona”.

Pertanto, secondo la Cassazione, la responsabilità del datore di lavoro, di cui all’art. 2087 c.c., sorge in questo caso.

Così come in tutti i casi in cui l’evento dannoso sia riconducibile “all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali” del datore di lavoro, “o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede” da parte del medesimo.

Pertanto, la Cassazione ha ritenuto che i giudice del precedente grado di giudizio avesse correttamente attribuito la responsabilità del Ministero.

Ciò in quanto l’impiegata “era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate”.

Dunque, la Cassazione ha rigettato il ricorso dell Ministero. La sentenza è stata integralmente confermata.

 

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