Una sentenza della Cassazione riguardante le molestie sessuali sul lavoro ha fornito dei chiarimenti interessanti su un caso specifico che coinvolgeva un Comune e un suo dipendente.

Con la sentenza n. 7097/2018 la Cassazione si è espressa su un caso di molestie sessuali sul lavoro nell’ambito del pubblico impiego.

Per i giudici, nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, il datore di lavoro, dopo essere stato condannato ex art. 2087 c.c. per essere rimasto inerte, può rivalersi sul dipendente che ha molestato la collega e obbligarlo a rispondere per la condotta posta in essere.

Come precisato dai giudici, infatti, il dipendente condannato per molestie sessuali sul lavoro risponde a titolo contrattuale per il suo comportamento. Con esso ha infatti violato doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro. Pertanto, la manleva va quantificata nella sua percentuale di responsabilità nella condanna per mobbing riportata dalla parte datrice di lavoro.

Nel caso di specie, i giudici della sezione lavoro della Corte di Cassazione si sono espressi sul caso di molestie sessuali sul lavoro ai danni di una lavoratrice di un Comune.

La donna aveva subito una serie di comportamenti vessatori posti in essere da colleghi e superiori qualificabili come mobbing, nonché una molestia sessuale da parte di altro dipendente.

In particolare, la donna aveva sporto denuncia per tale episodio. Ciò in quanto l’Amministrazione non si era attivata per perseguire disciplinarmente il dipendente. E, specifica, nemmeno al fine di prevenire il compimento di ulteriori condotte dello stesso carattere.

In prima battuta il Tribunale ha dichiarato la responsabilità del Comune per la violazione dell’art. 2087 c.c.. Così, lo ha condannato al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla lavoratrice.

In seguito, la Corte d’Appello ha accolto la domanda di “manleva” dell’amministrazione condannando altresì il dipendente che molestato la donna a rifondere al Comune il 60% delle somme già riconosciute come dovute alla dipendente in forza della sentenza di primo grado.

Tuttavia, l’autore delle molestie sessuali sul lavoro ha deciso di ricorrere in Cassazione.

L’uomo contentava la parte in cui la Corte ha ascritto a lui le conseguenze del comportamento proprio del datore di lavoro, riconoscendo il diritto dell’amministrazione al rimborso “manleva” di una parte della somma attribuita alla lavoratrice a titolo di risarcimento del danno.

Ma per gli Ermellini tale motivo è privo di fondamento. La Corte ha quindi confermato la decisione della Corte territoriale sulla chiamata in causa del Comune per essere manlevato.

Nello specifico, l’amministrazione ha agito nei confronti del dipendente a titolo contrattuale. E questo per una ragione ben precisa. Ovvero, in ragione della violazione degli obblighi contrattuali a carico del lavoratore, che nascono dal rapporto di impiego.

La manleva è stata quindi riconosciuta non in ragione di una responsabilità del lavoratore ex art. 2087 c.c..

Bensì, specificano i giudici,perché lo stesso, con la propria condotta è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro e ai principi generali di correttezza e di buona fede.

E per i giudici, osservare tali principi riguarda, non solo, lo svolgimento della propria attività lavorativa, ma anche i rapporti con l’utenza e con gli altri lavoratori sul luogo di lavoro.

Elementi che concorrono a dare luogo alla situazione che ha determinato la responsabilità ex art. 2087 c.c. del Comune.

“Nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato – scrivono i giudici – qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo”.

“Ciò – prosegue la sentenza – in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, che devono conformare non solo lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche i rapporti tra i dipendenti pubblici sul luogo di lavoro”.

 

 

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