L’offesa alla reputazione altrui propagata tramite web, essendo quest’ultimo uno strumento percepibile da un ampio pubblico di utenti, integra una delle ipotesi aggravate del reato di diffamazione

Il mezzo di trasmissione – comunicazione adoperato (appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso. D’altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione.

La Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto colpevole del reato di diffamazione (art. 81 c.p., art. 595 c.p., commi 1 e 3) ascritta ad un giornalista, per avere offeso la reputazione di un collega della RAI attraverso la pubblicazione, sul sito web di due articoli.

Quindi il ricorso per Cassazione. Il ricorrente già condannato nel merito, deduceva la violazione o erronea applicazione della legge penale, ribadendo la tesi secondo la quale, per effetto dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il reato di diffamazione sarebbe stato abrogato, dal momento: a) che la libertà di pensiero riconosciuta dall’art. 21 della Carta fondamentale soffre l’unico limite della contrarietà al buon costume, non ricorrente nella specie; b) che il diritto all’onore e alla reputazione non sono stati richiamati dalla Costituzione, ma da successive e sottordinate fonti internazionali.

Il reato di diffamazione via web

Non sono d’accordo i giudici della Cassazione, i quali hanno affermato che sin da epoca risalente, la Corte costituzionale ha riconosciuto che l’esimente, prevista dall’art. 51 c.p. esclude la punibilità in quanto il fatto imputato costituisce esercizio di un diritto, aggiungendo che “non appar dubbio che tale sia il caso del giornalista che, nell’esplicazione del compito di informazione ad esso garantito dall’art. 21 Cost., divulghi col mezzo della stampa notizie, fatti o circostanze che siano ritenute lesive dell’onore o della reputazione altrui, sempreché la divulgazione rimanga contenuta nel rispetto dei limiti che circoscrivono l’esplicazione dell’attività informativa derivabili dalla tutela di altri interessi costituzionali protetti” (Corte cost. 14/07/1971, n. 175). Solo qualche anno più tardi la medesima Corte ha puntualizzato che l’art. 10 cod. civ., L. 22 aprile 1941, n. 633 e gli artt. 96 e 97 non contrastano con le norme costituzionali ed anzi mirano a tutelare e a realizzare i fini dell’art. 2, affermati anche nell’art. 3 Cost., comma 2, e art. 13 Cost., comma 1, che riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali rientra quello del proprio decoro, del proprio onore, della propria rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti espressamente negli artt. 8 e 10 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo (Corte cost. 12/04/1973, n. 38).

Quanto al reato in sé considerato, già in un precedente arresto della Quinta sezione penale (n. 4741 del 17/11/2000) della Cassazione, si ebbe distinguere la comunicazione via e-mail da quella attraverso internet, osservando che, in quest’ultimo caso, “se invece della comunicazione diretta, l’agente immette il messaggio in rete, l’azione è, ovviamente, altrettanto idonea a ledere il bene giuridico dell’onore. Per quanto specificamente riguarda il reato di diffamazione, è infatti noto che esso si consuma anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione da parte di costoro del messaggio non siano contemporanee (alla trasmissione) e contestuali (tra di loro), ben potendo i destinatari trovarsi persino a grande distanza gli uni dagli altri, ovvero dall’agente. Ma, mentre, nel caso, di diffamazione commesso, ad esempio, a mezzo posta, telegramma o, appunto, e-mail, è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari, nel caso in cui egli crei e utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes (sia pure nel ristretto – ma non troppo – ambito di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti a pagamento, la legittimazione, a connettersi”).

La decisione di merito

Partendo da tale – ovvia premessa, si giunge agevolmente alla conclusione che, anzi, l’utilizzo di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui dell’art. 595 c.p. (comma 3: offesa recata… con qualsiasi altro mezzo di pubblicità). Anche in questo caso, infatti, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale. Nè la eventualità che tra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive può indurre a ritenere che, in realtà, venga, in tale maniera, integrato il delitto di ingiuria (magari aggravata ai sensi dell’art. 594 c.p., comma 4), piuttosto che quello di diffamazione. Infatti il mezzo di trasmissione – comunicazione adoperato (appunto internet), certamente consente, in astratto, (anche) al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, ma il messaggio è diretto ad una cerchia talmente vasta di fruitori, che l’addebito lesivo si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso. D’altronde, anche per altri media si verifica la medesima situazione. Un’offesa propagata dai giornali o dalla radio-televisione è sicuramente percepibile anche dal diretto interessato, ma la fattispecie criminosa che, in tal modo, si realizza è, pacificamente, quella ex art. 595 c.p. e non quella ex art. 594″.

Tale conclusione non è mai stata posta in dubbio nella giurisprudenza di questa Corte (e, infatti, v., sullo stesso presupposto, di recente, Sez. 5, n. 38099 del 29/05/2015).

Per tali ragioni, il ricorso del giornalista imputato è stato respinto con condanna di quest’ultimo alla pena prevista per legge.

 

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