In primo grado l’azienda sanitaria ne era uscita indenne avendo il Tribunale respinto la domanda degli attori per il decesso del congiunto

Gli attori convenivano in giudizio la struttura sanitaria, chiedendo il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso del proprio congiunto, cagionato – a loro giudizio – da una condotta colpevolmente omissiva dell’ente medesimo.

Già sofferente per diverse patologie, il paziente si era sottoposto ad analisi emato-chimiche presso il citato presidio sanitario; analisi che avevano mostrato un allarmante livello del valore del potassio. Nonostante l’esito di tali accertamenti avesse evidenziato un imminente pericolo di vita del paziente – che sarebbe difatti spirato tre giorni dopo per arresto cardiaco dovuto ad iperpotassiemia – non ne fu data alcuna comunicazione al medico curante.

In primo grado l’azienda sanitaria ne era, tuttavia, uscita indenne. Il Tribunale aveva infatti respinto la domanda degli attori, ritenendo insussistente un obbligo di comunicazione urgente degli esiti dell’accertamento in capo alla stessa; obbligo non previsto da alcuna specifica disposizione normativa.

Dello stesso avviso erano anche i giudici della Corte d’Appello. Di qui il ricorso in Cassazione (Corte di Cassazione, III Sez. Civile, 19 gennaio 2018, n. 1251)

Sin da subito la Cassazione chiarisce che non rileva, ai fini della decisione, la circostanza che il paziente (deceduto) si fosse rivolto all’ospedale per essere sottoposto ad analisi cliniche e non per essere ricoverato, risultando comunque concluso tra le parti il cd. contratto di spedalità (Cass., 24791/2008; 8826/2007).

Il comportamento cui è tenuta la struttura ospedaliera – aggiunge – per costante e consolidata giurisprudenza, si sostanza nell’uno come nell’altro caso, in uno specifico obbligo di prestazione e in un correlato dovere di protezione del paziente. Ne consegue che, al di là e a prescindere da qualsivoglia disposizione normativa in materia, rientra nel dovere accessorio di protezione della salute del paziente una tempestiva e immediata attivazione in presenza di una evidente situazione di pericolo di vita.

Se dunque è vero che non può dirsi sussistente in capo all’ospedale un generico obbligo di attivazione in presenza di qualsivoglia situazione di alterazione dei dati clinici che emerga dalle analisi compiute presso la medesima struttura sanitaria, certo è che tale affermazione subisce un limite, laddove l’alterazione di che trattasi, si riveli di tale gravità da mettere in pericolo la vita stessa del paziente – onde una tempestiva segnalazione al sanitario competente o al paziente stesso ne possa, sul piano probabilistico, scongiurare l’esito letale conseguente al ritardo di comunicazione; ritardo che, ove consumato, si risolve nella violazione del precetto di cui all’art. 1176 c.c., comma 2.

Nel caso in esame anche la CTU esperita in sede di giudizio aveva evidenziato come, al di là e a prescindere da qualsivoglia indicazione normativa, regolamentare o semplicemente amministrativa (protocolli interni ovvero “linee guida”), il valore della potassiemia emerso dalle analisi, indicasse inequivocabilmente un pericolo di vita del paziente e ne imponesse una immediata comunicazione ai medici curanti.

Non resta dunque che affermare la responsabilità della struttura ospedaliera, che accogliendo il paziente all’interno del proprio ambiente (a prescindere dalla finalità di ricovero, di mero accertamento e/o di analisi) assume una posizione di garanzia nei confronti di quest’ultimo e pertanto, a fronte della propria indiscutibile negligenza, è responsabile del decesso.

Avv. Sabrina Caporale

 

 

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