Il principio di affidamento deve applicarsi in ogni caso in cui una pluralità di soggetti si trovi ad operare a tutela di un medesimo bene giuridico

Il principio di affidamento nell’altrui operato è individuabile nei casi in cui il medico interviene su un paziente fornendo il proprio apporto in maniera anche diacronica attraverso atti medici successivi, dovendosi accertare, ai fini della valutazione della penale responsabilità di ogni singolo sanitario, quale sia stato l’apporto causale alla verificazione dell’evento fornito dalla sua azione.

Così ha deciso la Quarta Sezione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 2354 depositata in data 19 gennaio 2018.

I fatti.

Un paziente muore a seguito di complicazioni fisiche sopraggiunte successivamente ad un intervento chirurgico e vengono tratti a giudizio per il reato di omicidio preterintenzionale, imputazione poi modificata dalla Corte d’Appello in quella di omicidio colposo, i medici, uno presente nel corso dell’intervento chirurgico, e l’altro nel successivo ricovero.

Le parti civili impugnano la sentenza d’appello, dolendosi dell’inesattezza giuridica della pronunciata sentenza di assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste, anziché  ricorrere alla declatoria di estinzione del reato per il decorso del termine di prescrizione.
Il secondo motivo di gravame, censurava, invece, la decisione della Corte territoriale che aveva disposto una nuova perizia volta a chiarire le cause del decesso, senza attribuire invece la giusta rilevanza a quanto emergeva già dalla perizia fatta in primo grado.
Uno dei sanitari imputati presentava ricorso ai Giudici di legittimità, sottolineando il fatto che si fosse attribuita rilevanza alla incompleta informativa fornita al paziente, come elemento idoneo ad integrare il mancato consenso, rilevando come la mancata o incompleta informativa non potesse comunque essere  considerato elemento sul quale poter ravvisare gli elementi tipici della condotta colposa, suggerendo di valutare la sua condotta, come  sfornita di rilevanza causale nella verificazione dell’evento morte.

Secondo il ricorrente, si era verificato un evento idoneo ad interrompere il nesso causale tra la sua azione e la morte del paziente, ravvisabile nelle manovre poste in essere da altro medico, rilevando come il suo intervento, anche se considerato come poco tempestivo, non avesse avuto rilievo nella causazione della morte del paziente.

I particolare ai due sanitari era stato addebitato di non aver richiesto una TAC di controllo, neppure senza mezzo di contrasto, così sottovalutando un nuovo importante sanguinamento, puntualmente verificatosi, costituente causa prima del decesso.

La rinnovazione del dibattimento nel giudizio d’appello.

Si tratta, secondo gli Ermellini, di un istituto di carattere eccezionale a cui può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti, sicché non può essere censurata la sentenza nella quale siano indicati i motivi per i quali la riapertura dell’istruttoria dibattimentale non si reputi necessaria e, per converso, non può essere censurata la sentenza che invece ritenga necessario procedere a rinnovare il dibattimento.

Tanto vale a fortiori anche quando si verta in tema di rinnovazione dell’istruttoria ai fini dell’effettuazione di perizia, poiché la perizia stessa ha concettualmente la natura di mezzo di prova “neutro”, sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, e ciò anche quando alla base della determinazione di assumerla si evochi, magari impropriamente, una questione di nullità o inutilizzabilità della precedente perizia svolta in primo grado.

La Corte di Cassazione non è giudice del sapere scientifico, poiché non detiene proprie conoscenze privilegiate, ma è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto.

In questa prospettiva, il giudice di merito può fare legittimamente propria, quando lo richieda la natura della questione, l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire.

In questa ottica, non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della relazione tecnica disattesa, poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, che, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento.

Se il giudice ha rispettato tali principi, il giudizio di fatto formulato è incensurabile in sede di legittimità (cfr. Sez. 4, n. 18080 del 18/03/2015, parti civili Eccher ed altri in proc. Barretta ed altro).
Ebbene, secondo la Cassazione, il principio è pacificamente applicabile, a fronte di decisione che ha spiegato ampiamente e non illogicamente le ragioni dell’adesione alla tesi della perizia disposta in sede di rinnovazione, spiegando anche giuridicamente le ragioni della pronuncia liberatoria, in un contesto oggettivo e soggettivo in cui la Corte territoriale ha ritenuto di escludere i profili di responsabilità originariamente addebitati ad uno dei sanitari per l’assenza di riscontri positivi circa il ruolo efficiente avuto nell’esito mortale.

Il principio di affidamento.

In tale situazione vige il principio di affidamento, che deve applicarsi in ogni caso in cui una pluralità di soggetti si trovi ad operare a tutela di un medesimo bene giuridico sulla base di precisi doveri suddivisi tra loro. Ed è allora necessario che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato di norma a rispondere. Così configurato il principio di affidamento funge da limite all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia.
Tale principio, però, va contemperato con l’obbligo di garanzia verso il paziente che è a carico di tutti i sanitari che partecipano contestualmente o successivamente all’intervento terapeutico.
Appare evidente che una mera applicazione del principio di affidamento consentirebbe ad ogni operatore di disinteressarsi completamente dell’operato altrui, con i conseguenti rischi legati a possibili difetti di coordinamento tra i vari operatori.

Sostengono gli Ermellini che il riconoscimento della responsabilità per l’errore altrui non è illimitato e richiede la verifica del ruolo svolto da ciascun medico dell’equipe, non essendo consentito ritenere una responsabilità di gruppo in base a un ragionamento aprioristico.
E tale verifica è stata compiuta dalla Corte di appello.

La mancanza di consenso informato valido e la sussistenza della colpa.

Non meritevoli secondo gli Ermellini sono le critiche della difesa sulla asserita rilevanza attribuita dal giudice di merito alla mancanza di un consenso valido.

Il punto di partenza, correttamente inteso dalla Corte territoriale, è la pronuncia della Suprema Corte, a Sezioni unite, n. 2437 del 18/12/2008, Giulini, Rv. 241752, anche se intervenuta sulla questione della possibile rilevanza penale della condotta del sanitario che, in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il paziente stesso ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle regole dell’arte e con esito fausto.

La Corte ha escluso che tale condotta possa avere una rilevanza penale; ed infatti, se il medico sottopone il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato e tale intervento, eseguito a regola d’arte, si sia concluso con esito fausto, nel senso che ne è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo del reato di lesioni volontarie (articolo 582 cod.pen.), che sotto quello del reato di violenza privata (articolo 610 cod.pen.).

Le Sezioni Unite hanno così definitivamente chiarito che la mancanza o l’invalidità del consenso non assume alcuna rilevanza penale.

Si deve però stabilire quali sono gli effetti penali che dall’eventuale mancato o invalido consenso possono derivare per il medico in caso di esito infausto o comunque dannoso del proprio intervento.

Secondo la Suprema Corte, si deve ritenere (cfr. in tal senso anche Sez. 4, n. 37077 del 24/06/2008, Rv. 240963) che la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta, sia omissiva che commissiva, dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso.
Da ciò discende che il giudizio sulla sussistenza della colpa non presenta differenze di sorta a seconda che vi sia stato o no il consenso informato del paziente. Si deve però sottolineare come non sia di regola possibile fondare la colpa sulla mancanza di consenso, in quanto l’obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza.

L’acquisizione del consenso, infatti, non è tesa ad evitare fatti dannosi prevedibili ed evitabili, ma unicamente a tutelare il diritto alla salute e, soprattutto, il diritto alla scelta consapevole in relazione agli eventuali danni che possano derivare dalla scelta terapeutica in attuazione di una norma costituzionale (art. 32, comma 2).

La Corte di Cassazione sottolinea che in un unico caso la mancata acquisizione del consenso potrebbe assumere rilevanza come elemento della colpa, ossia nel caso in cui la mancata sollecitazione di un consenso informato abbia finito con il determinare, mediatamente, l’impossibilità per il medico di conoscere le reali condizioni del paziente e di acquisire un’anamnesi completa. In questo caso, il mancato consenso rileva non direttamente, ma come riflesso del superficiale approccio del medico all’acquisizione delle informazioni necessarie per il corretto approccio terapeutico (cfr. Cass. Sez. 4, n. 10795 del 14/11/2007).

Ed è in questa ottica, secondo gli Ermellini, che regge e va condivisa la decisione impugnata, nella parte in cui evidenzia il tema della affermata mancanza di un consenso valido e pieno come nello specifico dimostrativo di un atteggiamento colposo del sanitario, rilevante ai fini del verificatosi evento lesivo, poiché la mancata prospettazione dell’alternativa possibile all’intervento ha avuto come conseguenza un approccio interventistico approssimativo e inutilmente rischioso.
La Corte territoriale pur avendo derubricato l’originaria contestazione, e in tale prospettiva comunque limitato l’ambito dei profili di colpa addebitati infine all’imputato, si è limitata a confermare le statuizioni civilistiche adottate in primo grado nei confronti dell’imputato.

La Cassazione sottolinea l’evidente l’erroneità di tale determinazione, che non solo non è supportata da adeguata spiegazione, ma è anche concettualmente incompatibile con l’evidenziata derubricazione.
Da tanto deriva l’annullamento della decisione, nei confronti di uno dei medici, limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

 

Avv. Maria Teresa De Luca

  

 

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