La Cassazione fa il punto in merito ai maltrattamenti sugli animali e ai rischi penali di tali azioni in una recente pronuncia. 

Che cosa rischia un soggetto che infligge sevizie al cane? Per chi si macchia di questo delitto, secondo la Cassazione, può scattare anche la reclusione, come sancito dagli Ermellini nella sentenza n. 8036/2018.

Con tale pronuncia, la terza sezione penale della Cassazione ha condannato a sei mesi di reclusione un soggetto reo di aver maltrattato e seviziato il proprio cane.

La sentenza riformava – con riferimento all’entità della pena irrogata – la decisione del tribunale.

Quest’ultimo aveva dichiarato la responsabilità penale di un uomo per il reato di cui all’art. 544-ter, 2° comma, c.p.. Il soggetto aveva “sottoposto il proprio cane ad un trattamento incompatibile con la sua indole, tenendolo per vari giorni legato ad una catena all’interno di un box, privo di assistenza igienica, di acqua e di cibo, all’interno del quale vi era una cuccia in cemento non riparata dalle intemperie”.

Il giudice di merito aveva mitigato la sanzione inflitta a suo tempo all’imputato, riducendola da 9 a 6 mesi di reclusione (senza sospensione condizionale dati i precedenti penali).

Il soggetto, però, aveva interpellato la Cassazione per omessa qualificazione del fatto a lui contestato entro l’ambito dell’art. 727 c.p..

A suo avviso, infatti, dagli atti non emergeva che il suo cane avesse patito lesioni causate con dolo.

Ma il ricorso in Cassazione, per il soggetto, non ha l’esito sperato. Anzi.

Per gli Ermellini, infatti, la condotta dell’imputato è inconferente rispetto alla vicenda, a differenza di quanto asserito dallo stesso.

“L’indagine – scrivono gli Ermellini – volta a verificare la sussistenza a carico della bestia – oggetto materiale del reato sebbene non certo titolare del bene interesse tutelato dalla norma, dovendo questo essere rinvenuto nel sentimento di compassionevole pietas che l’individuo umano prova dei confronti di determinate categorie di animali che, in quanto soggetti indubbiamente senzienti, non possono essere, pertanto, sottoposti ad ingiustificate sofferenze – di eventi avversi riconducibili, dal punto di vista nosologico, al concetto di lesione fisica o psichica”.

All’uomo vengono contestate sevizie al cane oltre che un trattamento incompatibile con la sua indole.

Un trattamento “consistente nel tenerlo legato per vari giorni ad una catena all’aperto, senza cure igieniche, senza somministrazione né di cibo né di acqua, in assenza di un valido riparo”.

Riparo che peraltro mancava all’animale anche durante l’inverno, con temperature rigide.

Su tale aspetto poco incide per i giudici “la circostanza che l’istruttoria documentale acquisita agli atti non evidenzierebbe, secondo il ricorrente, alcuna lesione a carico della povera bestia”.

Il cane, visitato da un veterinario, aveva anche subito un collasso.

Tali elementi sono sufficienti a integrare il concetto di sevizie e a costituire l’elemento materiale del reato.

Per i giudici è noto che “il dato secondo il quale il cane sia di per sé un animale gregario, destinato cioè a vivere – sia pure in abituali condizioni di sostanziale cattività – non isolato ma in comunione con altri soggetti, comunemente rappresentati, data la oramai millenaria consuetudine che tale bestia ha con la specie umana, da uomini nei cui confronti esso non di rado riversa, in una auspicabile mutua integrazione, i segni evidenti della propria sensibile affettività, dovendo, peraltro, ricevere dall’uomo, ove sia instaurato con esso un rapporto di proprietà, le necessarie cure ed assistenze”.

Per quel che concerne la quantificazione della condotta entro il confine dell’art. 544-ter c.p., la Cassazione specifica quanto segue.

Ovvero che il criterio discretivo tra le due fattispecie è riconducibile al diverso atteggiamento soggettivo dell’agente. Questo poiché la prima è connotata dalla necessaria sussistenza del dolo, e la seconda derivante solo da una condotta colposa.

Nel caso in esame la condotta dell’uomo è stata posta in essere con consapevolezza. Pertanto, per i giudici, si parla di dolo e non di semplice colpa.

Pertanto, all’inammissibilità del ricorso segue la condanna al pagamento delle spese processuali. Oltre a ciò l’uomo è stato condannato a versare 2mila euro alla Cassa delle ammende.

 

 

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