Il marito che obbliga la moglie a sopportare il tradimento ricattandola economicamente commette reato di “maltrattamenti in famiglia”

Il marito obbliga la moglie a sopportare il tradimento dietro ricatto commette il reato previsto e punito dall’art. 572 del c.p. di “maltrattamenti in famiglia”. Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 48224 del 15 novembre 2016.

La Corte di appello di Torino, infatti, aveva confermato la sentenza di primo grado e aveva condannato l’imputato per il reato di “maltrattamenti in famiglia”, commesso nei confronti della moglie di origine tunisina.

All’origine della disputa era la denuncia della moglie di aver subito molestie dal marito, che comprendevano un tradimento conclamato e duraturo. Il marito aveva infatti intrapreso una relazione con un’altra donna dalla quale aveva anche avuto un figlio. Di fronte alle rimostranze della moglie, aveva reagito in modo violento e minaccioso e aveva iniziato a ricattarla: o sopportare la relazione o tornare in Tunisia, a causa della situazione di difficoltà economica in cui versava.

Ritenendo la sentenza ingiusta, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando la “assenza di indizi gravi, precisi e concordanti in punto di responsabilità”. Secondo il ricorrente, in particolare, la sentenza impugnata si baserebbe “su mere congetture non assistite da adeguati riscontri, attribuendo rilievo alle sole dichiarazioni della persona offesa quale unica testimone diretta dei fatti contestati, in assenza di elementi presuntivi dai quali inferire la responsabilità dell’imputato nella commissione delle plurime condotte necessarie per una pronuncia di condanna”.

Evidenzia l’imputato come “la credibilità della persona offesa” fosse stata “erroneamente affermata sulla base di un singolo episodio (produttivo di mere percosse) riscontrato da alcuni testi, che tuttavia non basta – in difetto di qualsiasi indicazione sui criteri adottati per rilevare l’assenza del contrasto delle dichiarazioni della persona offesa con le altre acquisizioni probatorie – ad avvalorare la descrizione dei fatti di maltrattamento contenuta nel capo d’imputazione”.

Secondo la Cassazione, invece, la Corte d’appello aveva adeguatamente motivato la propria decisione, tenendo in considerazione “l’intero quadro probatorio” e “confutando, con argomenti logicamente illustrati, tutte le obiezioni dalla difesa mosse in punto di fatto”.

La Corte d’appello, in particolare, avrebbe, del tutto correttamente, ritenuto attendibile il “contributo narrativo offerto dalla persona offesa, in quanto privo di contraddizioni di rilievo sui punti principali e supportato da plurimi ed oggettivi elementi di riscontro”. Inoltre, la moglie aveva riferito di essersi trovata in una “condizione di isolamento, bisogno economico e intimidazione” dopo essere arrivata dalla Tunisia in Italia per ricongiungersi al marito, e le sue parole sono state confermate anche dalla psicologa, sentita in sede testimoniale.

Di conseguenza, secondo la Cassazione, la Corte d’appello aveva congruamente motivato la propria decisione, delineando “un quadro storico-fattuale ritenuto coerentemente dimostrativo sia della volontà dell’imputato di imporre alla moglie, lungo il consistente arco temporale ricompreso fra l’arrivo in Italia della donna e la denuncia dalla stessa presentata alla fine di agosto 2013, la realtà della sua stabile convivenza di fatto con un’altra donna – dalla quale peraltro aveva già avuto un figlio – sia della violenta e minacciosa reazione alle sue comprensibili proteste, con l’intento di porla di fronte alla scelta tra la passiva sopportazione della situazione in atto, ovvero il ritorno in Tunisia per la condizione di abbandono economico, tanto che solo grazie all’aiuto di una conoscente occasionale riuscì, dapprima, a trovare una provvisoria sistemazione abitativa, quindi ad essere accolta presso una struttura protetta”.

Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

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